“Debito di gratitudine”?

Non c’è nessun su o giù nello spazio esteriore della terra, dunque il nord come ‘su’ e il sud come ‘giù’ sono definizioni puramente arbitrarie. La rappresentazione dell’Europa e dell’America che stanno in alto sulle carte geografiche e sui mappamondi, e che è universalmente familiare, è solo un espediente visuale per rafforzare l’idea che è giusto e appropriato che la gente bianca stia sopra, domini il mondo. Per ri-orientarvi, ruotate le carte geografiche e i mappamondi di 180 gradi. (Amoja Three Rivers )

Il “debito di gratitudine” è la formula magica che giustifica e dissimula i dispositivi che deumanizzano donne e uomini migranti autorizzandone, al contempo, lo sfruttamento in molteplici forme. In nome di quel “debito” essi diventano, infatti, proprietà dello Stato che li “accoglie”.

Alcuni giorni fa un compagno mi spiegava come tale “debito” scatti nel momento in cui le/i migranti vengono “salvati” in mare. Molto significativo è che a questo “salvataggio” segua, come primo atto, la perquisizione: un atto che sancisce l’espropriazione dei loro corpi come prezzo della possibilità – per altro sempre più remota – di restare nella fortezza Europa.

Pensando ai trascorsi coloniali europei, dalla conquista dell’America in poi, mi è stato immeditamente chiaro come il primo scopo del “debito di gratitudine” sia quello di mistificare la realtà attraverso un rovesciamento.

Secoli di schiavitù coloniale e neocoloniale, di rapina delle risorse, di “colonialismo tossico”, di sfruttamento e devastazione dei territori colonizzati nonché delle vite, dei saperi e delle culture di chi li abita sono infatti lì a testimoniare l’opposto: il vero, incommensurabile, “debito” ce l’hanno i Paesi europei che hanno costruito la propria ricchezza sul saccheggio coloniale e che oggi continuano ad ingrassare sulla pelle altrui. Vogliamo ribaltare questo mondo alla rovescia – con le sue false rappresentazioni propagandistiche – e rimettere sui suoi piedi la storia?


“Non si tratta di disseppellire i morti…”

Non si tratta di disseppellire i morti ma di impedire ai vivi di farsi complici di un nuovo delitto, combattendo tempestivamente il pericolo che per tanti segni si annunzia. Così si conclude la lezione sulla marcia su Roma che lo storico Nino Valeri tenne a Milano nel febbraio del 1961.

Parole attuali nel giorno in cui Joanne Liu di MSF conferma ciò che, già anni fa, testimoniavano coloro che concretamente lottavano contro le criminali politiche di chiusura delle frontiere e i Cpt/Cie, cioè i lager della democrazia – che oggi si celano sotto la formula magica di “accoglienza diffusa”.
Per rinfrescare la memoria sui rapporti e gli intrallazzi tra Italia e Libia ecco qui i pannelli di una mostra di alcuni anni fa: 1, 2, 3, 4, 5.

Visto che la memoria scarseggia e la storia pare non insegnare nulla – e, soprattutto, visto che la mentalità fascista è sempre più diffusa e sdoganata – davanti all’ennesima provocazione pubblicitaria della solita canaglia nera credo faccia bene ricordare come nacque la marcia su Roma. Per questo vi invito a leggere, qui, il bell’intervento di Valeri, pur scusandomi per la scarsa qualità della scansione (da fotocopie…).

Prossimamente proporrò un po’ di memoria sul culto (fallico) fascista del manganello, che preannuncio con questa significativa Madonna cattofascista – la Madonna del manganello, appunto!

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