“Debito di gratitudine”?

Non c’è nessun su o giù nello spazio esteriore della terra, dunque il nord come ‘su’ e il sud come ‘giù’ sono definizioni puramente arbitrarie. La rappresentazione dell’Europa e dell’America che stanno in alto sulle carte geografiche e sui mappamondi, e che è universalmente familiare, è solo un espediente visuale per rafforzare l’idea che è giusto e appropriato che la gente bianca stia sopra, domini il mondo. Per ri-orientarvi, ruotate le carte geografiche e i mappamondi di 180 gradi. (Amoja Three Rivers )

Il “debito di gratitudine” è la formula magica che giustifica e dissimula i dispositivi che deumanizzano donne e uomini migranti autorizzandone, al contempo, lo sfruttamento in molteplici forme. In nome di quel “debito” essi diventano, infatti, proprietà dello Stato che li “accoglie”.

Alcuni giorni fa un compagno mi spiegava come tale “debito” scatti nel momento in cui le/i migranti vengono “salvati” in mare. Molto significativo è che a questo “salvataggio” segua, come primo atto, la perquisizione: un atto che sancisce l’espropriazione dei loro corpi come prezzo della possibilità – per altro sempre più remota – di restare nella fortezza Europa.

Pensando ai trascorsi coloniali europei, dalla conquista dell’America in poi, mi è stato immeditamente chiaro come il primo scopo del “debito di gratitudine” sia quello di mistificare la realtà attraverso un rovesciamento.

Secoli di schiavitù coloniale e neocoloniale, di rapina delle risorse, di “colonialismo tossico”, di sfruttamento e devastazione dei territori colonizzati nonché delle vite, dei saperi e delle culture di chi li abita sono infatti lì a testimoniare l’opposto: il vero, incommensurabile, “debito” ce l’hanno i Paesi europei che hanno costruito la propria ricchezza sul saccheggio coloniale e che oggi continuano ad ingrassare sulla pelle altrui. Vogliamo ribaltare questo mondo alla rovescia – con le sue false rappresentazioni propagandistiche – e rimettere sui suoi piedi la storia?


Fare i conti con il passato coloniale per trasformare il presente

"Italiani, brava gente"...

Testa del partigiano etiope Hailù Chebbedè, decapitato dagli italiani nel settembre 1937 (“La testa girava in una scatola di biscotti, tra la truppa ridacchiante. Dopo il dileggio, fu appesa nella piazza del mercato di Socotà e lasciata marcire”) Italiani brava gente, oggi come ieri!

Una decina di anni fa, presentando la mia ricerca Difendere la “razza”, scrivevo:
[…] Si tratta di un lavoro di tessitura fra importanti e innovative ricerche storiche e testi originali dell’epoca, attraverso la griglia interpretativa di Luciano Parinetto che, nel suo La traversata delle streghe nei nomi e nei luoghi (Colibrì, 1997), ha dimostrato come i territori colonizzati – a partire dalla conquista delle Americhe – siano stati il laboratorio delle politiche poi importate in Europa.
Se, infatti, il Nuovo Mondo è stato il terreno sperimentale dei dispositivi della caccia alle streghe europea, il Corno d’Africa è stato il laboratorio delle politiche razziali e sessuali attuate nell’Italia fascista.
Conoscere questa parte della nostra storia è urgente soprattutto oggi, col riattivarsi, sulla pelle di donne e uomini migranti, in nome della sicurezza,  di  vecchi  e  sperimentati  dispositivi  razzisti  e  deumanizzanti che si formarono proprio nei cinquant’anni dell’esperienza coloniale  in  Africa.
Molte  parole  “fascistissime”  dell’epoca  si  ripresentano  oggi  nel  linguaggio  quotidiano  così  come  torna  a  riaffacciarsi  sempre  più  prepotentemente  una  concezione  della  donna  e della famiglia di stampo clerico-fascista. […]

Andre Vltchek, in un suo recente articolo (tradotto qui), propone una lettura simile anche per la Germania, mettendo in luce le radici coloniali dell’olocausto.

C’è poco da aggiungere, se non invitare ad uno sguardo lucido sul razzismo e sul suprematismo contemporanei.
È, infatti, urgente comprendere a fondo come l’attuale “padroni a casa nostra” sia  l’altra faccia – quella coloniale e neocoloniale – di “padroni anche in casa altrui”, cioè di tutti i genocidi, i massacri, gli stupri e lo sfruttamento perpetrati nelle colonie da parte dei paesi europei.
Ed è altrettanto urgente agire di conseguenza, rompendo ogni complicità.
L’olocausto europeo ha radici in Africa. Ora la Namibia persegue legalmente la Germania
di Andre Vltchek

Senza capire cosa sia successo agli Herero e ai Nama, è impossibile capire cosa sia successo prima e durante la seconda guerra mondiale.

Nel 2014, dopo aver pubblicato il mio reportage sulla Namibia, in cui denunciavo la “semi-negazione” tedesca che aveva commesso un Olocausto nella sua ex colonia dell’Africa sud-occidentale; una rinomata università tedesca mi ha mandato una lettera. Parafraso, ma il contenuto della lettera è mantenuto intatto:
“Caro professore Vltchek, siamo impressionati dalla tua ricerca e dalle tue conclusioni e vorremmo tradurre e pubblicare le sie analisi pionieristiche in lingua tedesca. Purtroppo, non possiamo permetterci alcun pagamento…”

Era una delle principali università del paese, con enormi budget e una reputazione internazionale.

Ho risposto, chiedendo perché, con tutti quegli studiosi e accademici, con dottorandi e esperti, non avevano mai inviato un team di esperti in Namibia, per indagare su uno dei più orrendi crimini commessi nel XX secolo? Volevo sapere, perché avrebbero improvvisamente voluto fare affidamento sul lavoro di uno straniero, un estraneo, un internazionalista che si rifiuta di definirsi un accademico (per me ora è un termine totalmente screditato)? Assassinare il popolo Herero e Nama nell’Africa sudoccidentale dai tedeschi era, dopotutto, la chiave per comprendere ciò che accadde alcuni decenni dopo, proprio in Europa, durante l’Olocausto che la Germania continuò a commettere contro ebrei e rom. Continue reading

Spese militari e “dannate della guerra”

Poiché mi è stato ripetutamente chiesto di pubblicare il mio intervento sulle “dannate della guerra” al convegno del 21 aprile e i dati sulle crescenti spese militari che ho enumerato in piazza a Milano il 5 maggio scorso, riporto questi ultimi in un file che potete scaricare qui, ricordando a chi fosse interessata/o a questo tema che l’Osservatorio sulle spese militari fornisce il continuo aggiornamento di tali dati.

Per quanto riguarda, invece, il mio intervento sull’impatto delle guerre neoliberiste sulle vite delle donne, potete ascoltarlo in podcast:

A fronte di questo ‘bel’ quadretto, mi chiedo come si possa ancora pensare di chiedere allo Stato con l’elmetto di garantire alle donne la – testuale – “giustizia riproduttiva”.

Ci siamo forse dimenticate che l’obiezione di coscienza sull’interruzione volontaria di gravidanza è garantita dall’art. 9 della legge 194/78?

art_9

Art_9_2

A quarant’anni dalla promulgazione di questa legge, c’è ben poco da commemorare. Assai diverso sarebbe superare, su tale questione, le leggi fasciste sulla “integrità e sanità della stirpe” (e dell’onore patriarcale…) rilanciando la depenalizzazione dell’interruzione di gravidanza (anche dal punto di vista delle sanzioni amministrative!), come volevano le femministe radicali già negli anni ’70.

Che alle donne ci pensino le donne stesse, autodeterminandosi; non lo Stato!

Sulla proposta di inserire l’educazione sessuale nelle scuole, sempre più legate a doppio filo con l’apparato militare, non sto nemmeno a fare commenti.

D’altra parte, non dobbiamo sorprenderci che certo femminismo ammaestrato, suprematista e collaborazionista non spenda mezza parola sulla crescente militarizzazione né si schieri fattivamente al fianco delle dannate della guerra…

“Le società benefiche prosperano sui poveri”…

Exploitation-rich-poor-noth-south-bloodsucking-14may11… nulla di nuovo, direte voi. E in effetti è così. Ma è anche vero che dietro le mezze verità emerse sulla ong Oxfam ce ne sono altre che è bene sapere.

Al proposito, pubblico la traduzione di una lettera pubblicata su The Guardian, che G. R. (che ringrazio di cuore!) mi ha inviato da Londra.

 

The Guardian Letters, 13 febbraio 2018
I crimini delle NGO vanno più in là di Oxfam

Le cifre per gli aiuti per il terremoto vanno da $10 miliardi a $ 13,4 miliardi.  Alcune di noi che hanno visitato Haiti hanno visto pochi o nessun segno di quei soldi, scrivono le attiviste.

Nel 2008 alcune di noi avevano scritto una lettera a Barbara Stocking, allora Amministratore Delegato di Oxfam, obiettando a un rapporto su Haiti sponsorizzato da loro, Rule of Rapists (Il dominio degli stupratori), che etichettava gli haitiani come stupratori mentre nascondeva gli stupri delle forze occupanti dell’ONU.  L’anno prima, 114 soldati erano stati mandati a casa per aver stuprato delle donne e delle ragazzine, alcune di 11 anni.  Non venne denunciato nessuno.  Scrivevamo: “Da decenni NGO come Oxfam sanno degli stupri da parte dei soldati ONU, come anche da parte dei lavoratori degli aiuti e delle società benefiche.  È la pressione da parte delle donne [e delle ragazzine] nelle comunità più impoverite che hanno avuto il coraggio di parlare, che alla fine ha vinto … un riconoscimento pubblico.”  Non ci fu nessuna risposta.
Le recenti rivelazioni di abusi sessuali da parte di importanti società benefiche (Report, 13 febbraio), non sono che un aspetto della corruzione delle NGO.  La gente di Haiti è stata la prima a liberarsi dalla schiavitù, ma i “padroni” coloniali che sconfisse – Francia, Gran Bretagna e USA – hanno continuato a saccheggiare e a sfruttare, anche attraverso l’esportazione delle NGO.  Haiti ha più NGO per miglio quadrato di qualsiasi altro paese e rimane il paese più povero dell’emisfero occidentale.  [Ian Birrill aveva ragione:] La corruzione trova il suo inizio e la sua fine con le potenze neo-coloniali.
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¿Dónde está Santiago?

Santiago-MaldonadoDiversi artisti hanno composto una canzone – ¿Dónde está Santiago? – per far conoscere al mondo la vicenda di Santiago Andrés Maldonado, “desaparecido” della democrazia argentina da oltre un mese. Il “patto di silenzio” tra governo e gendarmeria sulla sparizione di Santiago ci dice molto del capitalismo neocoloniale e neoliberista e dei suoi cani da guardia – come molto ci dicono gli intrallazzi del governo argentino col boia sionista Netanyahu.

2Inutile dire che di questo gravissimo fatto in Italia si sa poco-nulla, dato che di mezzo c’è l’immancabile gruppo Benetton, in prima linea nel lento genocidio della popolazione indigena Mapuche – il Popolo (che) della Terra (mapu) che da oltre un secolo lotta per riavere indietro i territori che gli sono stati sottratti dai governi argentini e cileni – in Patagonia, per mano di gruppi militari e paramilitari.  La famiglia Benetton è, infatti, il più grande gruppo proprietario terriero in Argentina, possiede circa 900.000 ettari di campo nelle provincie di Benetton_Chubut_-_Territorio_Mapuche_RecuperadoChubut, Rio Negro, Buenos Aires e Santa Cruz. Quelle terre, espropriate ai loro abitanti ancestrali, vengono deforestate e ridotte a pascolo per le migliaia e migliaia di pecore che diventeranno, poi, quei “bei” maglioncini, che grondano sangue indigeno, esposti nelle vetrine dei negozi Benetton.

Santiago Maldonado è “desaparecido” proprio quando, all’inizio di agosto a Cushamen, nel nord-est della provincia di Chubut, manifestava con un gruppo di Mapuche  in difesa del territorio e per chiedere la liberazione di Facundo Jones Huala, attivista della RAM (Resistencia Ancestral Mapuche) incarcerato in quanto figura di spicco nelle occupazioni delle terre appartenenti alla famiglia Benetton.

Come spiega un interessante articolo pubblicato su Resumen latinoamericano riportando le parole di Walter Barraza, del popolo tonokote, di Néstor Jerez, del popolo Ocloya e di Néstor Gabriel Velázquez, del popolo Guaraní – Lo scenario della repressione nella quale è avvenuta la sparizione forzata di Santiago Maldonado è il territorio delle comunità indigene, che sono costantemente vessate dai proprietari terrieri e dalle aziende impegnate nel settore minerario e in quelli della deforestazione e del petrolio, dal progressivo avanzare della frontiera dell’allevamento. […] “C’è una differenza abissale [tra terra e territorio]“, spiega il camache Barraza. “La terra parla di proprietà privata, è un concetto mercantilistico e, invece, il territorio ci include come persone, quindi ci obbliga a curare la natura. Noi nativi viviamo in armonia con i fratelli animali, le piante, l’acqua; siamo parte del territorio, che ci dà tutto quello di cui abbiamo bisogno. Deforestare è come amputare. La cultura occidentale ha un altro modo di vedere. Loro vengono per le risorse naturali, mentre noi viviamo in armonia con quelle risorse”. Continue reading

Roma – CIE di Ponte Galeria: lo Stato risponde alla violenza di genere con le deportazioni

Da hurriya.noblogs.org

Riceviamo e diffondiamo. Per scriverci e inviarci contributi hurriya[at]autistici.org

Retate nelle strade, stupri, soprusi e continue violenze nei centri di detenzione: questa è la quotidianità che lo stato offre alle donne migranti. Uno stato fascista e razzista fondato su machismo e cultura dello stupro; al di là dei propagandati progetti della polizia in difesa delle donne contro la violenza di genere, questo è uno stato che dice di proteggerti e nella realtà, al contrario, si trasforma in un ulteriore pericolo per la tua libertà e la tua vita.
Questo è ciò che è successo a Olga (nome di fantasia), una delle tante donne che spesso trovano il coraggio di liberarsi dalle loro relazioni violente. Olga è una donna ucraina che, nel momento in cui si è rivolta alle forze dell’ordine per denunciare le violenze agite da quello che era il suo compagno, è stata rinchiusa nel Centro di Identificazione ed Espulsione di Ponte Galeria, da dove la deporteranno a breve, perché la sua condizione di “irregolare” ha prevalso sulla sua richiesta di aiuto. Non si tratta di un caso isolato: ogni giorno le migranti devono vivere sulla propria pelle gli effetti di questo stato che le umilia, le sfrutta, le criminalizza e imprigiona per perpetuare poi le stesse violenze all’interno delle mura infami di un CIE.
Ogni giorno le donne migranti portano avanti le loro resistenze a questo sistema razzista fatto di confini e galere.
Non chiediamo allo stato di difenderci dalla violenza che esso stesso produce e di cui si nutre.
Quello che vogliamo è continuare a sostenere le lotte di chi a tutta questa brutalità si ribella, di chi resiste nei CIE, di chi si oppone alle deportazioni.
Quello che vogliamo è la libertà per tutte le donne recluse.

nemiche e nemici delle frontiere

Qui di seguito la trascrizione della telefonata con la donna detenuta nel CIE di Ponte Galeria. A causa di difficoltà di comprensione dell’audio, alcune parti sono mancanti e alcune sono state integrate tra parentesi per facilitare la lettura. [Continua a leggere su hurriya]

Benvenuta Meriam? (Alcune note su Imperial Ladies&Gentlemen)

È superfluo dire che sono assai contenta che Meriam – donna sudanese condannata a morte – sia viva e vegeta. Ma non è di lei che voglio parlare, data la sovrabbondanza di articoli che i quotidiani odierni dedicano al suo arrivo in Italia.

Ciò che mi interessa analizzare è, invece, come la vicenda di Meriam sia utilizzata – da parte di Imperial Ladies&Gentlemen – come dispositivo funzionale all’ennesima celebrazione della cristianità e dell’Occidente neoliberista quali fari di civiltà e salvezza…
Celebrazione che permette la simultanea rimozione di tutte le donne, gli uomini e i/le bambini/e quotidianamente assassinati – perché di omicidi si tratta, non di ‘morti’, come ha ben messo in luce Baruda – dal salvifico e blindato Occidente, neoliberista e filo-sionista, tanto nel Mediterraneo quanto nella striscia di Gaza e in infiniti altri luoghi del mondo che sarebbe lunghissimo stare ora ad elencare tra guerre, sfruttamento, gas flaring, zone impoverite e trasformate nelle pattumiere tossiche del pianeta ecc ecc.

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Alcuni nessi concettuali tra ragione neocoloniale e violenza maschile contro le donne

Anche quest’anno la giornata contro la violenza maschile sulle donne è passata. L’immaginario vittimizzante non è mancato nemmeno questa volta, condito anche con un tocco kitsch.
Ma guardiamo al lato positivo: da oggi e per i prossimi 363 giorni si può ragionare al di là di sedimentate attitudini culturali.

Nelle scorse settimane mi ero decisa, dopo lungo tempo, a mettere in rete alcune mie riflessioni sul postvittimismo.
Ora vorrei fare un passaggio ulteriore. Anzi tre, come gli aggettivi con cui bell hooks connota il patriarcato: capitalista, suprematista, bianco.

Nel neocolonialismo individuo la sintesi di queste tre connotazioni e proverò a partire da qui, cioè dalla necessità che la lotta contro la violenza maschile sulle donne si coniughi – o torni a coniugarsi – con la critica di quella che possiamo definire ragione neocoloniale.

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