Monopolio statale della violenza e dell’agonia

«Orso-che-corre trascorre oltre venti anni nel braccio della morte, dove si ammala gravemente: quasi cieco, ridotto su una sedia a rotelle e con il cuore ferito severamente da due infarti. La sua storia evidenzia un aspetto essenziale dell’agonia nella death row [braccio della morte]. Due mesi prima dell’esecuzione Ray Allen viene sottoposto, per decisione istituzionale, a un sofisticato intervento chirurgico al cuore. Lo Stato decide che deve essere tenuto in vita, per essere ucciso, sessanta giorni dopo, con una iniezione letale» (*).

La vicenda di Ray Allen/Orso-che-corre – Ya-nu-a-di-si, nella sua lingua nativa – è senza dubbio paradigmatica dell’intreccio tra sadismo istituzionale, monopolio statale della violenza e burocrazia che caratterizza la gestione dei corpi reclusi.
Ugualmente paradigmatica è la minaccia – e, purtroppo, la possibilità concreta – di sottoporre a nutrizione forzata Alfredo Cospito, recluso in regime di 41bis e da oltre tre mesi in sciopero della fame contro quello stesso regime di tortura.

Sottrarre e negare al recluso ogni possibilità di autodeterminazione è la dimostrazione più lampante e feroce di quanto il regime carcerario rappresenti esclusivamente la volontà di vendetta dello Stato: se vuoi vivere ti seppellisco vivo/a, se vuoi morire ti tengo in vita a forza (lasciandoti sepolto, ovviamente!), affinché tu non possa MAI fare del tuo corpo uno strumento di resistenza al monopolio statale della violenza.

Alcuni anni fa ho avuto occasione di visitare una mostra sulla storia dello sciopero della fame, allestita a Kilmainham Gaol, ex carcere dublinese dove furono rinchiusi e fucilati anche i principali esponenti dell’Insurrezione di Pasqua del 1916. Una sala della mostra era dedicata proprio alla nutrizione forzata, cui furono costrette tanto le suffragette incarcerate negli anni ’10-’20 quanto le militanti repubblicane Dolours e Marion Price nei primi anni ’70 del secolo scorso ed erano esposti anche gli strumenti (di tortura!) utilizzati per questa violenta pratica coercitiva, poi dichiarata non-etica dall’Associazione medica mondiale nel 1975.

A cinquant’anni di distanza da quella dichiarazione non solo le cose non sono cambiate ma, come due anni di pandelirio hanno ampiamente dimostrato, il monopolio statale della violenza va a braccetto con la sovradeterminazione, da parte istituzionale, delle scelte individuali di vita e di morte così come di quelle relative alla salute e alla cura.
La riduzione capitalistica degli esseri umani a merci, la definitiva reificazione-alienazione dell’individuo nelle mani dello Stato e del Kapitale passa anche – e prima di tutto – attraverso la negazione e la criminalizzazione di ogni forma di autodeterminazione.

Per questo le lotte contro il carcere e contro tutte le istituzioni totali e le loro propaggini nelle istituzioni ordinarie sono lotte femministe, oltre che libertarie e anticapitaliste, come già le nostre compagne ci hanno dimostrato un secolo fa.

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Il silenzio del femminismo mainstream su carcere e istituzioni totali e la ricorrente richiesta di leggi contro la violenza maschile sulle donne, oltre a dimostrare un’ignoranza storica abissale sono i chiari segnali di una volontà collaborazionista con chi si arroga il monopolio della vita, della morte e dell’agonia altrui.

(*) Nicola Valentino, Le istituzioni dell’agonia. Ergastolo e pena di morte, Sensibili alle foglie 2017

Al fianco di Lina Pinto

Lina, anziana donna proletaria cagionevole di salute, da ottobre è rinchiusa nelle carceri pugliesi. Intorno alla sua vicenda il silenzio è assordante, malgrado sia lo specchio di questa società disciplinare.

Rete Mapuche ha reso pubblica la sua storia e sta sostenendo la mobilitazione – che rilancio – per la sua liberazione.

Questo il comunicato dello scorso dicembre sulla sua incarcerazione:
Siamo amici ed amiche di Lina, una donna di 76 anni, rinchiusa da quasi due mesi in carcere (prima a Trani e da due settimane a Lecce). All’inizio ci abbiamo messo un po’ per affrontare collettivamente ed insieme al figlio, incredulità, rabbia e dolore nel pensarla rinchiusa, alla sua età e con i sui acciacchi, nel Carcere, lontana dalla sua casa, dai suoi affetti e dalle sue abitudini di donna libera e determinata nel vivere la vita in maniera semplice e genuina. Lina è una proletaria che vive insieme al figlio in uno dei tanti palazzi del quartiere Libertà di Bari.
Spesso a Bari le discussioni sono animate e non si sa mai come possono andare a finire; a causa di una di queste discussioni Lina finisce ai domiciliari a seguito di un provvedimento dell’autorità giudiziaria causato da una presunta lite condominiale e dopo alcuni giorni viene portata nel carcere di Trani in quanto considerata “evasa” dai domiciliari che le avevano imposto. L’avvocato non viene avvisato ed il figlio scopre che la madre è stata portata via dai carabinieri dagli abitanti del quartiere.
Lina è stata portata nella discarica sociale del paese Italia; è stata rinchiusa nel carcere femminile di Lecce perché lo stato, i servizi sociali, il welfare, la cura e il sostegno che tutti gli anziani di questo paese dovrebbero avere è loro negato, soprattutto se si è poveri, se si vive in un quartiere proletario e se non si dispone del denaro per poter affrontare al meglio i guai della vita.
Lina è una donna anziana, con diverse patologie e con i segni di un’intera vita passata ad affrontare problemi e difficoltà e la detenzione sta aggravando le sue condizioni fisiche e psicoligiche così come confermato dall’avvocato che l’ha vista ieri (lunedì 5 dicembre) durante la prima udienza del processo a suo carico.
Quello che sappiamo e che vogliamo è che Lina sia liberata immediatamente e sia individuata una soluzione alternativa alla detenzione in carcere perché è indegno per un paese che si considera moderno e democratico che una donna della sua età e con i sui problemi sia costretta a vivere ancora un minuto in più tra le mura di un carcere.
Le amiche e gli amici di Lina

E questa la chiamata alla mobilitazione per il prossimo 16 gennaio:
16 GENNAIO: MOBILITAZIONE PER LA LIBERTÀ DI LINA PINTO (DALLA PUGLIA AL CILE, TUTTE E TUTTI FUORI DALLE GALERE!)
Da metà ottobre ANGELA PINTO (Lina) è stata buttata in carcere senza tener conto dell’età avanzata (76 anni) e delle svariate patologie, in parte legate anche all’età, di cui soffre. Da quel momento su di lei è calato l’oblio del sistema giudiziario e carcerario che contraddistingue l’infamia del nostro bel paese. L’1 gennaio è stata ricoverata per un malore. Il tempo passa e le sue condizioni psicofisiche si aggravano, come spesso succede a chi è privato di libertà. Perché il carcere è questo: annichilimento dell’essere umano. Tutte le pressioni fatte alle istituzioni cittadine, per far attivare la macchina del welfare, si sono trasformate in promesse disattese. A nessuno, importa di Lina. Nessun impiegato dello stato sembra voler guardare negli occhi Lina e ascoltare la sua storia. Come il giudice, automa senza scrupoli né umanità che continua a rigettare ogni istanza di scarcerazione o di attenuazione delle misure cautelari, perché Lina è reclusa nel carcere di Lecce senza nemmeno essere stata condannata. Di fatto hanno deciso di ammazzarla in carcere, in Italia se sei povero muori in carcere. Lo stato di diritto di cui tanto ci vantiamo col resto del mondo è illusorio, la democrazia che siamo bravissimi a esportare con le bombe non è diversa da quella di alcuni paesi ritenuti regimi dittatoriali dall’opinione pubblica. La stessa persecuzione vissuta dai Mapuche, dai Curdi, dai Palestinesi e da tanti altri popoli oppressi oggi si è concretizzata amaramente anche in Italia. E lo vediamo ad oggi anche nella prigionia politica di Alfredo Cospito, rinchiuso e in sciopero della fame al 41bis. Come Rete internazionalista e anticarceraria chiamiamo alla mobilitazione internazionale in solidarietà con Lina: il giorno 16 gennaio 2023 dalle 8.30 saremo presenti fuori dal tribunale penale di Bari in Viale Saverio Dioguardi 1, dove si svolgerà l’udienza e dove faremo sentire forte il nostro grido ribelle. Chiediamo a movimenti, collettivi, associazioni e chiunque percepisca il dolore di questa ingiustizia di essere per strada o fuori alle sedi che rappresentano la malvagità dello stato italiano ognuno con le proprie pratiche di dissenso.
Solo la lotta paga. La solidarietà è un’arma, la solidarietà è una prassi, usiamola! Fuori tutte e tutti dalle galere, libertà per Lina!

Lettera e proposta dalla sezione femminile nuovi giunti del carcere di Torino

Ricevo e segnalo, con l’invito a sostenere e far conoscere questa lotta

Questa lettera arriva dalla seconda sezione Nuovi Giunti femmile del carcere delle Vallette. Racconta le condizioni a cui sono costrette queste detenute e un episodio drammatico che hanno vissuto, censurato dall’amministrazione penitenziaria. Con coraggio e collettivamente propongono un momento di lotta il 4 dicembre, a cui è doveroso dare voce. E’ importante diffonderla il più possibile tra gli uomini e le donne detenute in altre strutture carcerarie.
A margine della lettera viene specificato che la loro protesta non è per chiedere l’amnistia o l’indulto, ma per ottenere qualcosa di molto più vicino alle loro necessità e potenzialità di auto-organizzazione: lottare per la propria dignità e contro la quotidianità assassina che sono costrette a subire.

Stralci di una lettera dalle Vallette.
04/11/2013

(…) Mi trovo tutt’oggi ancora ai Nuovi Giunti. Sono stata trasferita il 22 luglio. Io come altre detenute, siamo al livello di non ritorno dalla quasi pazzia. In teoria nei Nuovi Giunti puoi starci massimo 15 giorni.

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