In Sopravvivere allo sviluppo, Vandana Shiva scrive: «La maggior parte dei lavori sul rapporto donne-ambiente nel Terzo Mondo si focalizza sulle donne viste come vittime peculiari del degrado ambientale. Eppure, le donne che partecipano alla guida dei movimenti ecologisti in paesi come l’India non parlano solo come vittime. La loro voce è quella della liberazione e della trasformazione, che fornisce nuove categorie di pensiero e nuove piste di ricerca. In questo senso, il mio è uno studio “post-vittimistico”: articola le categorie di sfida che le donne ecologiste stanno creando nel Terzo Mondo» (1).
Secondo V. Shiva, questa vittimizzazione è funzionale alla frammentazione tra le lotte e, soprattutto, ne riduce gli obiettivi a mere richieste di «concessioni all’interno del malsviluppo» [nell’originale inglese, maldevelopment, ossia, sviluppo sul modello unico e dominante: quello maschile (male)], mentre «l’ambientalismo diventa un progetto patriarcale di rimedi tecnologici e oppressione politica» (2).
La lettura di questi passaggi è stata, per me, illuminante e, già dai tardi anni Novanta, ho acquisito la categoria shiviana di postvittimismo tra gli strumenti principali della mia “cassetta degli attrezzi”, poiché mi sollecitava a guardare da una prospettiva – ed a sperimentare, di conseguenza, una prassi – radicalmente altra ed autonoma.
In sostanza, ho individuato nel postvittimismo un efficace antidoto al rischio di impantanamento in prospettive che, se pure apparentemente “alternative” a quella dominante, si rivelano essere, in ultima istanza, dei meri paliattivi.
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