Stare in piedi, senza abbassare lo sguardo

Dal Kurdistan alla Valsusa, le esperienze delle donne in lotta si intrecciano, si confrontano e danno vita a nuovi percorsi, liberandosi, innanzitutto, dalla “falsa idea di libertà”.

Invito all’ascolto dell’approfondimento di RadioCane su Kurdistan e questione di genere: una lotta di liberazione, nonché alla lettura/ascolto della dichiarazione di Chiara sotto processo – con Mattia, Niccolò e Claudio – con l’accusa di “terrorismo” per aver voluto gettare  “un granello di sabbia nell’ingranaggio di un progresso il cui unico effetto è l’incessante distruzione del pianeta in cui viviamo”.

Un importante tassello per un percorso postvittimista da costruire giorno per giorno.

Benvenuta Meriam? (Alcune note su Imperial Ladies&Gentlemen)

È superfluo dire che sono assai contenta che Meriam – donna sudanese condannata a morte – sia viva e vegeta. Ma non è di lei che voglio parlare, data la sovrabbondanza di articoli che i quotidiani odierni dedicano al suo arrivo in Italia.

Ciò che mi interessa analizzare è, invece, come la vicenda di Meriam sia utilizzata – da parte di Imperial Ladies&Gentlemen – come dispositivo funzionale all’ennesima celebrazione della cristianità e dell’Occidente neoliberista quali fari di civiltà e salvezza…
Celebrazione che permette la simultanea rimozione di tutte le donne, gli uomini e i/le bambini/e quotidianamente assassinati – perché di omicidi si tratta, non di ‘morti’, come ha ben messo in luce Baruda – dal salvifico e blindato Occidente, neoliberista e filo-sionista, tanto nel Mediterraneo quanto nella striscia di Gaza e in infiniti altri luoghi del mondo che sarebbe lunghissimo stare ora ad elencare tra guerre, sfruttamento, gas flaring, zone impoverite e trasformate nelle pattumiere tossiche del pianeta ecc ecc.

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Postvittimismo ed esperienza trans

Quarantacinque anni fa Sylvia Rivera e tante/i altre/i reagirono con determinazione all’oppressione poliziesca, sociale e di genere dando vita alla rivolta di Stonewall, che rappresentò un momento di rottura radicale anche nei confronti dei dispositivi vittimizzanti.

Come scrivevamo nel 2007 io e Paolo Pedote, nella Premessa di We Will Survive!:

Sono passati quasi quarant’anni dalla rivolta esplosa nella notte
tra il 27 e il 28 giugno 1969 a New York quando trans, lesbiche
e gay si ribellarono all’ennesima irruzione della polizia all’interno
dello Stonewall Inn. Era allora in vigore negli USA una legge che
obbligava ad indossare almeno tre indumenti «consoni» al sesso
anagrafico. Azioni repressive come quella guidata dall’ispettore
Seymour Pine erano all’ordine del giorno: i poliziotti arrivavano
all’improvviso nei locali noti come punti d’incontro «omosessuali»,
le luci si accendevano, le persone presenti venivano separate in
gruppi a seconda del sesso anagrafico e portate al commissariato –
dove venivano poi rinchiuse e picchiate e dove spesso lesbiche e
trans venivano anche stuprate.
Stonewall segna un punto di non ritorno: quella volta la polizia
non ebbe la meglio e la rivolta proseguì nei giorni successivi, crescendo
d’intensità e coinvolgendo altri settori di movimento. […]

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Come uno zoccolo negli ingranaggi del patriarcato

[…] Il capitalismo assume le differenze fisiche e psicologiche che nel medioevo contrassegnavano l’uomo e la donna, e le approfondisce in corrispondenza al differenziarsi delle funzioni economiche e sociali a cui vengono destinati. […] la separazione tra produzione e riproduzione permette al capitale sia di riprodurre la forza lavoro solo in quanto direttamente produttiva sia di introdurre profonde divisioni all’interno del proletariato che garantiscono un maggior controllo su di esso.
La differenziazione tra personalità maschile e femminile, o potremo dire l’accumulazione delle differenze tra i sessi, è uno dei terreni su cui più apertamente si esplica l’iniziativa capitalistica nella sua prima fase storica. Che cosa si intende per differenziazione tra personalità femminile e maschile? Si tratta di una selezione all’interno delle capèacità lavorative per cui si separano quelle idonee al lavoro di produzione da quelle idonee alla riproduzione e si condensano le prime negli uomini e le seconde nelle donne. Nell’uomo si reprime ciò che sarà destinato ad essere esclusivamente femminile, nelle donne ciò che sarà esclusivamente maschile, mentre in entrambi si sviluppano le doti che più gli competono. Mai, dunque, come nella società capitalistica, l’uomo è stato tanto maschio e la donna tanto femminaContinue reading

Lettera e proposta dalla sezione femminile nuovi giunti del carcere di Torino

Ricevo e segnalo, con l’invito a sostenere e far conoscere questa lotta

Questa lettera arriva dalla seconda sezione Nuovi Giunti femmile del carcere delle Vallette. Racconta le condizioni a cui sono costrette queste detenute e un episodio drammatico che hanno vissuto, censurato dall’amministrazione penitenziaria. Con coraggio e collettivamente propongono un momento di lotta il 4 dicembre, a cui è doveroso dare voce. E’ importante diffonderla il più possibile tra gli uomini e le donne detenute in altre strutture carcerarie.
A margine della lettera viene specificato che la loro protesta non è per chiedere l’amnistia o l’indulto, ma per ottenere qualcosa di molto più vicino alle loro necessità e potenzialità di auto-organizzazione: lottare per la propria dignità e contro la quotidianità assassina che sono costrette a subire.

Stralci di una lettera dalle Vallette.
04/11/2013

(…) Mi trovo tutt’oggi ancora ai Nuovi Giunti. Sono stata trasferita il 22 luglio. Io come altre detenute, siamo al livello di non ritorno dalla quasi pazzia. In teoria nei Nuovi Giunti puoi starci massimo 15 giorni.

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Alcuni nessi concettuali tra ragione neocoloniale e violenza maschile contro le donne

Anche quest’anno la giornata contro la violenza maschile sulle donne è passata. L’immaginario vittimizzante non è mancato nemmeno questa volta, condito anche con un tocco kitsch.
Ma guardiamo al lato positivo: da oggi e per i prossimi 363 giorni si può ragionare al di là di sedimentate attitudini culturali.

Nelle scorse settimane mi ero decisa, dopo lungo tempo, a mettere in rete alcune mie riflessioni sul postvittimismo.
Ora vorrei fare un passaggio ulteriore. Anzi tre, come gli aggettivi con cui bell hooks connota il patriarcato: capitalista, suprematista, bianco.

Nel neocolonialismo individuo la sintesi di queste tre connotazioni e proverò a partire da qui, cioè dalla necessità che la lotta contro la violenza maschile sulle donne si coniughi – o torni a coniugarsi – con la critica di quella che possiamo definire ragione neocoloniale.

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Verso prospettive e pratiche postvittimistiche

In Sopravvivere allo sviluppo, Vandana Shiva scrive: «La maggior parte dei lavori sul rapporto donne-ambiente nel Terzo Mondo si focalizza sulle donne viste come vittime peculiari del degrado ambientale. Eppure, le donne che partecipano alla guida dei movimenti ecologisti in paesi come l’India non parlano solo come vittime. La loro voce è quella della liberazione e della trasformazione, che fornisce nuove categorie di pensiero e nuove piste di ricerca. In questo senso, il mio è uno studio “post-vittimistico”: articola le categorie di sfida che le donne ecologiste stanno creando nel Terzo Mondo» (1).

Secondo V. Shiva, questa vittimizzazione è funzionale alla frammentazione tra le lotte e, soprattutto, ne riduce gli obiettivi a mere richieste di «concessioni all’interno del malsviluppo» [nell’originale inglese, maldevelopment, ossia, sviluppo sul modello unico e dominante: quello maschile (male)], mentre «l’ambientalismo diventa un progetto patriarcale di rimedi tecnologici e oppressione politica» (2).

La lettura di questi passaggi è stata, per me, illuminante e, già dai tardi anni Novanta, ho acquisito la categoria shiviana di postvittimismo tra gli strumenti principali della mia “cassetta degli attrezzi”, poiché mi sollecitava a guardare da una prospettiva – ed a sperimentare, di conseguenza, una prassi – radicalmente altra ed autonoma.
In sostanza, ho individuato nel postvittimismo un efficace antidoto al rischio di impantanamento in prospettive che, se pure apparentemente “alternative” a quella dominante, si rivelano essere, in ultima istanza, dei meri paliattivi.

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