NON PASS – Dei ricatti e dei pollai

All’incirca un anno fa, in un intervento per il libro collettivo Krisis, scrivevo:
Prima di entrare nel vivo della questione vorrei, dunque, enunciare il mio posizionamento come femminista radicale anticapitalista/materialista, perché è proprio da questo posizionamento che ho osservato e vissuto i dispositivi di potere messi in atto nelle settimane di confinamento forzato.
Con molti di questi dispositivi le donne si confrontano già dall’infanzia e, soprattutto, dall’adolescenza, quando il desiderio di uscire e sperimentarsi si scontra con l’autorità familiare che, in nome del “nostro bene”, ci nega libertà e autodeterminazione – infantilizzandoci, poi, fino alla morte.
A quale bambina/adolescente/donna non è stato detto che il mondo esterno è, per lei, popolato da minacce e pericoli e che in nome del “suo bene” è giusto che stia rinchiusa nelle mura domestiche?
A quale bambina/adolescente/donna ribelle che sceglie di rompere la reclusione nell’alveo familiare, se incappa in una di queste minacce o pericoli non viene detto “Te la sei cercata”?
A quale bambina/adolescente/donna non viene insegnato a mendicare protezione e cercare sicurezza delegando ad altri – immancabilmente uomini – la propria difesa?
[…] Secoli di sperimentazione sulla pelle delle bambine/adolescenti/donne hanno costituito un vero e proprio laboratorio delle forme di sfruttamento, controllo, repressione e reclusione tipiche della modernità capitalista – dalla schiavitù al colonialismo e alle prigioni, dai manicomi ai lager per immigranti. Dispositivi che hanno spianato la strada alla costruzione della paura e alle conseguenti politiche di confinamento coercitivo che hanno caratterizzato il grande esperimento sociale dissimulato sotto il nome di “emergenza covid”
.

Il ricatto è un altro dei dispositivi di potere che bambine/adolescenti/donne vivono immancabilmente sulla propria pelle: ricatti in famiglia (“se non fai la brava…”, “se non fai quello che ti dico…” ecc, ecc.), ricatti – anche sessuali – nei luoghi di lavoro, ricatti nelle relazioni di coppia (“se mi ami, allora devi…”, “se mi lasci ti ammazzo” ecc. ecc.) e chi più ne ha più ne metta.

Quindi, guardando la situazione attuale possiamo tranquillamente dire che non c’è nulla di nuovo sul fronte patriarcale: tutto è già stato ampiamente sperimentato e con grande successo. Non devono sorprendere i ricatti plurimi cui siamo sottoposte/i da mesi, perché essi non sono che l’effetto di feroci attacchi all’autodeterminazione che il sistema patriarcale porta avanti da lungo tempo.
Occorre, inoltre, considerare l’efficacia che hanno i ricatti (e i conseguenti sensi di colpa) in un paese in cui è ancora radicata la cultura cattolica.

Con la scuola hanno raggiunto il top, schiudendo la strada a politiche che verranno applicate in tutti i luoghi di lavoro, a partire dalla pubblica amministrazione.

Fino a qualche giorno fa mi aspettavo – ingenuamente, forse… – che estendessero l’obbligo vaccinale al personale scolastico, dopo averlo imposto a quello sanitario.
Ma poi mi sono resa conto che la logica del ricatto sarebbe stata più funzionale allo scarico delle responsabilità sulle singole e sui singoli: non ti vaccini? a casa senza stipendio e senza la possibilità di ricevere la disoccupazione (tanto ci saranno le/gli iperprecari e ipersfruttati “docenti covid” a tappare magnificamente tutte le falle). È così semplice, no?!?

Lo Stato evita in tal modo il rischio di dover risarcire chi soffre gli effetti collaterali dei vaccini, magari anche lasciandoci la pelle, e preferisce farlo accollare a ciascuno/a attraverso il consenso informato, così se ci lasci la salute o la vita son fatti tuoi, perché vaccinarti è stata una tua scelta. Costringere proprio attraverso i ricatti è funzionale a questa deresponsabilizzazione istituzionale.

Qui potete guardare la conferenza stampa del CdM di ieri sera. Consiglio di ascoltare attentamente le parole del ministro Bianchi dal min. 5.06 al min. 5.26 (l’intero suo intervento va dal min 3.52 al min 9.56).
Testuale: […] è raccomandato il rispetto di una distanza di sicurezza interpersonale di un metro, salvo le condizioni strutturali e logistiche degli edifici che lo consentono – cioè, come ha detto il Comitato tecnico scientifico, distanziamento là dove è possibile […].

«Là dove è possibile»: quindi le classi pollaio rimangono, in quanto non sono considerate un problema prioritario…
Eppure, come ricorda Anief, ogni 35 metri quadrati ci dovrebbero essere 14 studenti e un/una insegnante. Credo sia il sogno di qualunque docente di ogni ordine e grado, ma è, appunto, un sogno.

Poco più di un anno fa, nelle “Proposte della Conferenza delle Regioni e delle Province autonome per le linee guida relative alla riapertura delle scuole” (cioè per il famoso “Piano scuola”) potevamo leggere: Nel primo punto di quelle proposte viene indicato in 2 metri quadrati lo spazio individuale per studente, ulteriormente precisato (in riferimento al DM 18/12/1975) in 1,80 mq/alunno per le scuole dell’infanzia, primarie e secondarie di I grado, e in 1,90 mq/alunno per gli istituti di secondaria di II grado. Viene precisato anche che la distanza interpersonale tra il docente e i banchi prossimi alla cattedra dovrà essere di almeno 2 metri. […] Primo esempio: aula di scuola secondaria di I grado con queste dimensioni: larghezza m. 5,6, lunghezza 6,8, pari a mq 38,08 lordi, cioè 28,8 mq utili (detratti i 10 mq di rispetto (a). A 1,80 mq per alunno, la capienza massima è pari a 15,6, arrotondati a 16 alunni. Secondo esempio: aula di scuola secondaria di II grado: larghezza m. 5 e lunghezza m. 8, pari a 40 mq lordi, cioè 30 mq utili per gli alunni (detratti i 10 mq di rispetto (a). A 1,90 mq per studente, la capienza massima è pari a 15,8 arrotondato a 16 alunni.

Alla riapertura delle scuole lo scorso settembre abbiamo trovato il solito pollaio e lo ritroveremo anche quest’anno, col beneplacito del Cts e dei principali sindacati della scuola. Il “ritorno in presenza” e le “regole di sicurezza” di cui si vantava ieri sera il ministro non saranno altro che un ritorno al pollaio.

Chissà, forse gli espertissimi del Cts contano sul crescente abbandono scolastico, che con l'”emergenza covid” ha visto una crescita incredibile in termini percentuali: Circa un minore su quattro è considerato a rischio dispersione. Stiamo parlando del 25% come dato su base nazionale che diventa uno su 3 al sud Italia, dove la situazione è molto più grave, afferma Anief (Per approfondire si veda anche l’indagine Ipsos per Save the Children I giovani al tempo del coronavirus).

Che fare?
In attesa di uno sciopero generale ad oltranza della scuola – che forse non avverrà mai – si apre la strada dei ricorsi al Tar, esattamente come per i sanitari. Con la speranza che intanto non si smetta di scendere in piazza…

A chi fosse interessata/o segnalo la chat su telegram del Coordinamento nazionale – Petizione scuola prof. Granara.

Daniele Granara, professore di diritto costituzionale e avvocato, ha già presentato ricorsi collettivi del personale sanitario in diverse regioni italiane e questa volta si rivolge al personale scolastico docente e non docente, alle/gli studenti maggiorenni e a tutte/i coloro che abbiano a che fare direttamente o indirettamente col mondo della scuola e siano contrari alle ‘misure anticovid’ varate in questi giorni dal governo.

Oggi, 6 agosto, verso le 20 ci sarà un live proprio con l’avv. Granara – il link verrà dato poco prima del collegamento nella chat indicata al link sopra.

Foto di classe nell’era covid (unica differenza rispetto a prima: i ‘dispositivi anticontagio’ del prof)

Le sue scarpette rosse….

«Finché gli lasceremo facoltà di giudizio sul diritto a un nostro spazio l’uomo non potrà fare a meno di occuparlo, poiché non è uno spazio fisico quello di cui si parla – sebbene esista anche lo spazio fisico di cui siamo private – ma uno spazio storico, psicologico e mentale». Così scriveva Carla Lonzi in Significato dell’autocoscienza nei gruppi femministi, nel 1972.

Sono passati quasi cinquant’anni da allora ed ecco cosa ci ritroviamo oggi: uomini in scarpette rosse che pretendono di proteggerci e sedicenti femministe che, pavlovianamente, li applaudono e li incensano.
Non mi sorprende che quattro o quattrocento cretini vogliano far credere di fare qualcosa di concreto contro la violenza maschile indossando e sfoggiando scarpette à la Ratzinger (forse gliele invidiavano?); il privilegio maschile rende ciechi e stolidi, è noto… Ma ciò che mi preoccupa è il consenso femminile nei loro confronti, perché significa che troppe donne ancora non capiscono che la protezione maschile è l’altra faccia del mito delle virilità e della violenza maschile: “Mio è il potere di decidere se proteggerti o menarti, ma tu rimarrai sempre una minorata”.

Decenni di emancipazionismo, di sedicenti femministe disposte ad infangare le pratiche separatiste pur di ritagliarsi un posticino nelle istituzioni maschili o di portarsi i loro ometti in corteo il 25 novembre o, ancora, donne disposte ad utilizzare il proprio tempo per “educare” i loro compagni di area politica, anziché a rafforzare se stesse insieme ad altre, hanno dato questi risultati.
In questo quadro avvilente nessuna sembra cogliere la cosa più evidente, e cioè che il patriarcato difende e rafforza il proprio potere in modo camaleontico adattandosi e proliferando in ogni condizione economica, sociale e culturale. E per fare questo è anche disposto ad indossare scarpette rosse…

PS: Sia chiaro che, personalmente, non sopporto nemmeno le donne che scendono in piazza con le scarpette rosse o che le indossano ai funerali dell’ennesima vittima di femminicidio; ma questo perché per contrastare una violenza strutturale ci vogliono pratiche concrete e radicali e non performance o spettacolarizzazioni che nemmeno la scalfiscono.

Il capitalismo non è mai sostenibile!

La sostenibilità richiede la protezione di tutte le specie e di tutte le genti e il riconoscimento che specie differenti e genti differenti giocano un ruolo essenziale nel mantenimento degli ecosistemi e dei processi ecologici […]. Tanto più l’umanità continua sulla strada della non sostenibilità, quanto più diventa intollerante verso le altre specie e cieca verso il loro ruolo fondamentale per la nostra sopravvivenza. Vandana Shiva

Se nella ‘fase 1’ ci hanno ammorbate&blindate col pretesto della ‘nostra salute’, per la ‘fase (che) 2 (ovaie!)’ e successive il capitale-Hexenmeister ha già pronte le sue armi propagandistiche sulle magnifiche sorti e progressive per tutelare noi e il pianeta che abitiamo: le energie rinnovabili.

Nulla di nuovo, sia chiaro. Dalla ‘rivoluzione verde’ – che «non è stata né verde, né rivoluzionaria, bensì un piano per colonizzare i sistemi agricoli e alimentari dell’India, che ha provocato una grave crisi idrica» – al greenwashing non c’è soluzione di continuità.

Madre Terra, una delle “telalchemiche” di Salvatore Carbone

Il capitalismo sostenibile, ossimoro che nulla ha da invidiare alla ‘guerra umanitaria’, è l’inganno in cui continuano a cadere tanti ‘gretini’.

Perché il capitalismo si fonda sul mal(e)development – di cui ho scritto già brevemente, tempo fa – «ovvero uno sviluppo privo del principio femminile, conservativo, ecologico», «ridotto ad una continuazione del processo di colonizzazione». Uno sviluppo fondato su «categorie patriarcali che interpretano la distruzione come “produzione” e la rigenerazione della vita come “passività”» (*).

Soltanto il femminismo radicale e anticapitalista/materialista è capace, secondo me, di uno sguardo bifocale e postvittimista che comprenda gli stretti nessi tra violenza contro le donne e violenza contro la terra, per opporsi con determinazione allo stato di cose presente e ai suoi sviluppi devastanti.

Per cominciare a trasformare la ‘fase 2’ in ‘fase 2 occhi che finalmente si liberano dalle fette di salame’, consiglio la visione di Planet of the Humans (ringrazio la cara Miky ‘de Belfast’, che me l’ha segnalato).

(*) Vandana Shiva, Sopravvivere allo sviluppo, Isedi, 1993 [poi ripubblicato da Utet, nel 2004, col titolo Terra madre. Sopravvivere allo sviluppo]

Tal’at!

Riprendo da NenaNews questo interessante articolo di Hala Marshood e Riya Alsanah, che mostra come ormai non funzioni più la narrazione furbetta del posporre la liberazione delle donne alla liberazione di un popolo.

Tal’at: un movimento femminista che reimmagina la Palestina

La frase “Non esiste una patria libera senza donne libere” ha riecheggiato nelle comunità palestinesi lo scorso settembre quando migliaia di donne sono scese in strada in dodici villaggi, paesi e città del mondo in quello che è stato il lancio di Tal’at, un movimento femminista palestinese. Tal’at significa uscire fuori in arabo.

Con la scelta delle strade come luogo di lotta, le marciatrici hanno alzato la voce contro la violenza di genere in tutte le sue manifestazioni: femminicidio, violenza domestica, sessismo incorporato e sfruttamento, affermando che il sentiero verso la vera liberazione deve includere l’emancipazione di ogni palestinese, incluse le donne.

È stata la prima volta che nella storia recente le palestinesi hanno agito sotto una bandiera apertamente politica e femminista. Si è riusciti a mobilitare le palestinesi nella loro geografia frammentata.Il catalizzatore è stato l’uccisione di Israa Ghrayeb, una ventunenne palestinese di Betlemme. Israa è stata picchiata brutalmente dai membri della sua famiglia nell’agosto 2019. L’hanno seguita all’ospedale dove le hanno inflitto ulteriori ferite che, a causa dell’abuso fisico ininterrotto, le sono state fatali. Le grida di aiuto di Israa all’ospedale sono state documentate dallo staff medico e condivise sui social media. Nessuno è andato a salvarla, apparentemente neanche la persona che ha documentato le sue grida di aiuto è intervenuto.
Ciò che è successo poi ha evidenziato ulteriormente la brutalità assoluta dell’omicidio di Israa. La diretta complicità istituzionale dell’ospedale è andata a sommarsi al silenzio sociale della famiglia che ha diffuso voci d’accusa. Sostenevano che Israa fosse “posseduta” e dichiaravano che avesse problemi di salute mentale – come se ciò giustificasse le loro azioni.

Israa è una delle trentanove donne palestinesi uccise nel 2019 secondo i nostri dati. Dall’inizio del 2020, Shadia Abu Sreihan, trentacinquenne del Naqab (Negev) e Safa Shikshek, venticinquenne di Gaza, non sono più con noi a causa di femminicidi.
Sentendone l’esigenza, due settimane dopo l’omicidio di Israa, un piccolo gruppo di donne palestinesi ha emesso una chiamata alla protesta, spingendo le donne a scendere in strada, alzare la voce e agire: “Questa è una manifestazione per Israa e per le 28 donne che abbiamo perso dall’inizio dell’anno, e per coloro i cui corpi e le cui anime affrontano violenze quotidiane”.
“Il nostro messaggio: la sicurezza e la dignità delle palestinesi non è una questione che riguarda solo le donne, ma deve essere alla base della nostra politica emancipatoria nei discorsi e nell’agire, perché non esiste una patria libera senza donne libere”.

Perché le palestinesi sentono l’urgenza di organizzarsi sotto una bandiera esplicitamente emancipatoria femminista? Qual è il discorso femminista che Tal’at incarna? Scriviamo nel tentativo di porre alcuni di questi interrogativi.
Sfidando gli stereotipi razzisti e orientalisti, le donne del Medio Oriente e del Nord Africa sono in prima linea nella lotta per la costruzione di una società più giusta ed equa. Mentre scriviamo le donne occupano piazze e marciano per le strade di un Iraq dilaniato dalla guerra, determinate a giocare un ruolo attivo nel dare forma al loro futuro. In Libano, le donne non hanno abbandonato le strade, sfasciano banche, si agitano per i diritti dei rifugiati siriani e palestinesi e danno una lezione in tempo reale per quanto riguarda la pratica del femminismo rivoluzionario.

Le femministe di tutto il mondo incarnano e articolano un femminismo che vede l’oppressione come qualcosa di sistematico e radicato strutturalmente nel capitalismo, che si interseca con la razza, la sessualità, il colonialismo e l’ambientalismo. In breve, un femminismo che va oltre le rivendicazioni di genere individuali, spingendoci a combattere per un mondo più giusto ed equo per tutti.
Tal’at è parte di questa tradizione femminista rivoluzionaria. L’esperienza di vita di più di sette decenni di violenza coloniale israeliana ha dato forma al nostro movimento. In quanto popolo, siamo privati dei nostri diritti e bisogni di base mentre si paralizzano il nostro sviluppo collettivo e la nostra resistenza. Questa realtà ci costringe ad analizzare esperienze di violenza – nelle sue varie forme – come una questione sociale e politica che deve essere affrontata alla radice e collettivamente, in quanto società.

Oltre a porre una minaccia diretta alla vita e alla riproduzione sociale, per rafforzare ulteriormente il suo controllo, Israele ha lavorato strategicamente per colpire e frammentare i palestinesi dal punto di vista sociale, politico ed economico. La privazione dell’agire collettivo delle comunità palestinesi si accompagna al consolidamento delle strutture parentali patriarcali. Ciò si acuisce in particolare nel caso dei palestinesi in Israele dove si sviluppano relazioni beneficiarie tra il governo di Israele e i capi delle famiglie estese, o gli sceicchi.

Tra i benefici, lo Stato concede a questi uomini l’autorità di gestire quelle che sono considerate questioni “intracomunitarie”. Così, per esempio, la polizia israeliana ha riconsegnato donne in fuga che si sospetta subiscano abusi dai loro parenti e coniugi, le stesse persone da cui scappavano.
Questa non è una richiesta di riforma istituzionale, ma di approfondimento della nostra comprensione della relazione intrecciata tra la colonizzazione e le manifestazioni di oppressione sociale. Inoltre, la polizia, come sanno le donne di tutto il mondo, non è né nostra protettrice né alleata; figurarsi quando diventa parte di una struttura coloniale che include i palestinesi come soggetti che devono essere sorvegliati e controllati; che sia la polizia israeliana o la polizia dell’Autorità Palestinese addestrata dagli americani, con un ruolo essenziale nel controllare i palestinesi nell’interesse del nostro colonizzatore.
Una realtà che non può essere esclusa da questa matrice di oppressione è la paralisi sistematica dello sviluppo economico palestinese e la trasformazione dei palestinesi, incluse le donne, in una forza lavoro economica e sfruttabile.
Tutto ciò culmina in un sistema di violenza a più strati dove le relazioni di potere nelle forme sociali, economiche e di genere sono intensificate e riprodotte, con un impatto diretto sulle formazioni sociali intracomunitarie.

Nella sua chiamata iniziale, Tal’at ha chiesto di cogliere l’opportunità di costruire la solidarietà femminista deframmentata palestinese. Nel fare ciò, Tal’at spinge attivamente contro la corrente di frammentazione sociale, politica e geografica che travolge il paesaggio palestinese, accelerata dal processo di costruzione di uno Stato neoliberista cementato dagli accordi di Oslo del 1993.
Oslo ha limitato la lotta di liberazione palestinese attorno a un’idea burocratica di stato e a diritti frammentati mentre incideva uno spazio tra lotte sociali e politiche, limitando inoltre la nostra abilità di articolare una visione più ampia della liberazione collettiva.

Il movimento politico palestinese – nelle sue rappresentazioni multiple – continua a giocare un ruolo attivo nell’estromettere e minimizzare l’emancipazione delle donne come una questione che riguarda solo le donne che dovrebbe essere articolata sulla base dei diritti individuali neoliberisti e all’interno dei confini delle organizzazioni no-profit delle donne. La sicurezza e la dignità delle donne vengono presentate come una battaglia secondaria che dovrebbe essere posposta alla liberazione “geografica”.

Tal’at si è sviluppato per cambiare questa realtà forzando le politiche emancipatorie in programma, affermando che la nostra lotta di liberazione deve essere basata sul centrare le esperienze di coloro che sono emarginati socialmente, politicamente ed economicamente e praticando una solidarietà attiva con tutti quelli che subiscono le barbarie del sistema corrente.
Aspiriamo alla costruzione di un mondo diverso, perché la nostra emancipazione dipende dalla distruzione del capitalismo, del colonialismo e del patriarcato.

Dunque, Tal’at non dà la priorità al formulare richieste istituzionali, né da parte dell’Autorità Palestinese e sicuramente non da parte dello Stato israeliano; la nostra lotta è interna alla Palestina per la costruzione del tessuto sociale e politico, con l’avvio di un processo di guarigione collettiva radicale, che caratterizza la nostra lotta di liberazione, nel discorso e nella pratica.

Tal’at segna una nuova era per il femminismo palestinese, dove un movimento con radici indipendenti sta provando a forzare un discorso femminista rivoluzionario nell’agenda politica, ridefinendo la nostra battaglia di liberazione nazionale, come una che incarni il tipo di società che vogliamo costruire.
Quello che il futuro ci riserva è incerto, ma sappiamo che mettere insieme le donne palestinesi in un unico movimento, in uno spazio di attivismo politico-femminista decentralizzato ma anche deframmentato, crea le condizioni per la crescita e la solidarietà.

Per una genealogia del razzismo italiano

Punto 7 del "Manifesto del Razzismo Italiano" (1938)

Punto 7 del “Manifesto del Razzismo Italiano” (1938)

In seguito alla recentissima ripubblicazione di Difendere la “razza”, ho ricevuto svariati inviti a presentare il libro in giro per l’Italia.
Sicuramente una presentazione con commento dal vivo delle immagini d’epoca – come uso fare –  è molto efficace, ma siccome non sarà possibile andare ovunque, ho pensato che fosse il momento giusto per pubblicare in video questo percorso iconografico sulla costruzione della “razza italiana” nell’epoca coloniale – liberale e fascista – e sulle intersezioni tra genere e “razza” nella storia del razzismo italiano, nonché dei loro effetti sul presente.

Da tempo avevo in cantiere questo progetto e mi fa piacere poter dare l’opportunità di approfondire tali tematiche a tutte/i coloro che hanno letto  e apprezzato il mio lavoro di ricerca – dato che nel libro manca questa parte iconografica –  così come a chi non l’ha ancora letto.

Ringrazio la Libreria Calusca, l’Archivio Primo Moroni e il Centro sociale Cox18 di Milano per averne organizzata (e registrata!) la presentazione il 21 ottobre scorso.
Un ringraziamento particolare va, poi, a Miriam Canzi, che è intervenuta all’iniziativa presentando il percorso curato da Alessandra Ferrini Archive as Method (Resistant Archives) (2018), di cui ha fatto parte come studente, relativo ai materiali del disperso Centro di Documentazione Frantz Fanon, e il più ampio progetto AMNISTIA. Colonialità italiana tra cinema, critica e arte contemporanea.
Gli audio del contributo di Miriam e del dibattito seguito alla presentazione si possono trovare nel sito web di Cox18.

Mi scuso per eventuali imperfezioni nel montaggio, ma era prima volta che usavo questo tipo di programmi. Sono comunque certa che tali imperfezioni non penalizzeranno l’originalità della mia lettura  e l’attualità dei contenuti.

Buona visione!

Parte I

Parte II

Parte III

Perché non parliamo anche degli stupri “di pace”?

haringL’assegnazione del nobel per la pace al congolese dott. Mukwege e a Nadia Murad sta facendo esultare tante anime belle.

O, come sono brutti gli stupri di guerra! O, quanto ci commuove sentire le atrocità vissute dalle donne yezide e congolesi! O, come siamo fortunate a vivere in questa parte del mondo, dove se sei bianca e, possibilmente, di classe media puoi startene sulla tua poltrona a guardare con emozione l’assegnazione del nobel e magari applaudire attraverso la tastiera del computer! O, come ci sentiamo femministe&umanitarie quando proviamo empatia con le “vittime” di quelle brutture!

E poco importa se dopo 5 minuti ci siamo già dimenticate di quelle “vittime” e torniamo a sguazzare nella complicità col patriarcato capitalista&guerrafondaio e nei privilegi e comodità che le sue guerre ci garantiscono.

Né tanto meno importa citare nei nostri blog, articoli e interventi l’orrore e la ricorrenza degli stupri “di pace”.
Eh sì, perché su quello si tace, come si tace sul fatto che una struttura accademica come il Sant’Anna di Pisa – giusto per fare un esempio italiano tra altri  – profondamente coinvolto nel business della ricerca bellica, non disdegni di occuparsi di peacekeeping per arrotondare le entrate e imbellettarsi con una patina “umanitaria” –  perfino in un territorio come la Somalia, dove gli italiani “brava gente” hanno dato il peggio di sé fra stupri e altre atrocità tanto con il colonialismo quanto con la “missione di pace” Ibis/Restore Hope!

E ancor di più si tace su come agenzie internazionali come l’Onu – responsabile, tra l’altro, della diffusione del colera ad Haiti, che ha mietuto migliaia e migliaia di vittime – non siano affatto estranee alla pratica dello stupro “di pace”. Lo testimoniano anche gli articoli che ho riportato in queste poche ma significative pagine – che includono gli italiani “brava gente” in “missione di pace” – e un report su abusi e sfruttamento sessuale da parte dei peacekeepers presentato durante una sessione di lavoro dell’Assemblea generale delle Nazioni unite sugli aspetti economici delle operazioni Onu di peacekeeping, nel 2016.

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…e sempre a proposito di militari, alcune significative “riflessioni dal margine”

adunata-alpini-trento-2018Lo scorso week-end a Trento si è tenuta l’adunata degli alpini.

Perfino il mainstream locale ha dovuto citare sessismo e pesanti molestie nei confronti delle donne (corredando l’articolo con una foto molto significativa…).

Quelle che potete leggere qui di seguito sono le riflessioni di una compagna al riguardo. Ringrazio chi me le ha inoltrate e, soprattutto, chi le ha scritte.

ESSERE DONNA E MULATTA IN TEMPI DI ADUNATA – Riflessioni dal margine

Maggio 2018. Trento, sicura, silenziosa, regina di decoro urbano si prepara ad accogliere 600.000 militari e simpatizzanti smaniosi di sfilare per giorni a passo di marcia.

Da settimane la città è in fermento, i camion di bitume rompono i silenzi notturni, squadre di pompieri vengono arruolate per onorare la patria e adornare le facciate di bandiere tricolore, anche la bella e ormai succube sede di sociologia si veste a festa e dà il benvenuto agli alpini.

Allora via le bici, disinfetta i parchi da migranti e accattoni, scattano ordinanze su ordinanze speciali. 10 maggio è tutto pronto.
La città è luccicante e disposta a delegare interamente l’ordine pubblico all’organizzatissimo Corpo degli Alpini, legittimati in ogni loro azione dal semplice essere forze dell’ordine e di conseguenza affidabili, solidali, caritatevoli rappresentanti dell’ordine costituito.

Il capoluogo si trasforma in cittadella dell’Alpino, come per ogni grande evento il capitalismo si traveste per l’occorrenza e subdolo si appropria di ogni cosa. Chiudono le università, chiudono le biblioteche, chiudono gli asili nido. Ogni via si riempie di uomini in divisa, penne nere, fiumi di alcol, cori e trombe. Diventa labirinto inaccessibile e sala di tortura per qualsiasi corpo che non risponda alle prerogative di maschio, bianco, eterosessuale. (ah, non deve avere coscienza critica, questo è chiaro)

Diventa impraticabile e pericolosa per me che sono donna e mulatta. Esposta in maniera esponenziale a continue aggressioni verbali e fisiche che intersecano razza e genere, dando vita ad una narrativa vissuta e rivissuta mille volte nei più svariati contesti. A chi importa il tuo vissuto, a chi importa da dove vieni, a chi importa chi sei, chi si ricorda di avere davanti una persona, a chi importa?
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Spese militari e “dannate della guerra”

Poiché mi è stato ripetutamente chiesto di pubblicare il mio intervento sulle “dannate della guerra” al convegno del 21 aprile e i dati sulle crescenti spese militari che ho enumerato in piazza a Milano il 5 maggio scorso, riporto questi ultimi in un file che potete scaricare qui, ricordando a chi fosse interessata/o a questo tema che l’Osservatorio sulle spese militari fornisce il continuo aggiornamento di tali dati.

Per quanto riguarda, invece, il mio intervento sull’impatto delle guerre neoliberiste sulle vite delle donne, potete ascoltarlo in podcast:

A fronte di questo ‘bel’ quadretto, mi chiedo come si possa ancora pensare di chiedere allo Stato con l’elmetto di garantire alle donne la – testuale – “giustizia riproduttiva”.

Ci siamo forse dimenticate che l’obiezione di coscienza sull’interruzione volontaria di gravidanza è garantita dall’art. 9 della legge 194/78?

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A quarant’anni dalla promulgazione di questa legge, c’è ben poco da commemorare. Assai diverso sarebbe superare, su tale questione, le leggi fasciste sulla “integrità e sanità della stirpe” (e dell’onore patriarcale…) rilanciando la depenalizzazione dell’interruzione di gravidanza (anche dal punto di vista delle sanzioni amministrative!), come volevano le femministe radicali già negli anni ’70.

Che alle donne ci pensino le donne stesse, autodeterminandosi; non lo Stato!

Sulla proposta di inserire l’educazione sessuale nelle scuole, sempre più legate a doppio filo con l’apparato militare, non sto nemmeno a fare commenti.

D’altra parte, non dobbiamo sorprenderci che certo femminismo ammaestrato, suprematista e collaborazionista non spenda mezza parola sulla crescente militarizzazione né si schieri fattivamente al fianco delle dannate della guerra…

Sincerità dell’immondizia…

melma[…] una fogna è un cinico, che svela ogni cosa.
Questa sincerità dell’immondizia ci piace e riposa l’anima: quando si è trascorso il tempo a subire sulla terra lo spettacolo delle arie che si danno la ragion di stato, il giuramento, la saggezza politica, la giustizia umana, le onestà professionali, l’austerità di certe posizioni, gli abiti incorruttibili, solleva entrare in una fogna e vedere della melma che ammette di esserlo. […] (V. Hugo)

Nessuna sintesi potrebbe essere più efficace per esprimere ciò che penso dei comunicati intrisi di calunnie che attaccano iniziative contro la violenza di genere, di chi si sta anchilosando le dita su tastiere e con tweet per spammare al mondo quelle calunnie, delle maestrine che pensano di doverci spiegare come si faccia un’assemblea (senza nemmeno informarsi se si tratti o meno di un’assemblea) e delle maestrine che si ritengono detentrici uniche dei saperi femministi e poi appoggiano piani antiviolenza (sedicenti “femministi”) che ancora una volta non tengono conto né delle pratiche di autodifesa femminista contro la delega della propria sicurezza allo Stato, né della necessità di sostenere le donne che finiscono in carcere per aver reagito alla violenza maschile.

Che ciascuna/o intraprenda la strada che vuole, ma facciamola finita con lotte di egemonia  il cui unico effetto è rafforzare il patriarcato e il crescente fascismo.

Nel blog della Coordinamenta potete leggere la lettera delle compagne che hanno organizzato l’iniziativa del 19 gennaio prossimo a Parma, il comunicato di Parmantifascista in relazione allo stesso evento, il mio comunicato e quello della Coordinamenta in risposta al testo divulgato dalla rete #iostoconclaudia.

Detto ciò, non ho intenzione di perdere altro tempo su questa infame vicenda.

Roma – CIE di Ponte Galeria: lo Stato risponde alla violenza di genere con le deportazioni

Da hurriya.noblogs.org

Riceviamo e diffondiamo. Per scriverci e inviarci contributi hurriya[at]autistici.org

Retate nelle strade, stupri, soprusi e continue violenze nei centri di detenzione: questa è la quotidianità che lo stato offre alle donne migranti. Uno stato fascista e razzista fondato su machismo e cultura dello stupro; al di là dei propagandati progetti della polizia in difesa delle donne contro la violenza di genere, questo è uno stato che dice di proteggerti e nella realtà, al contrario, si trasforma in un ulteriore pericolo per la tua libertà e la tua vita.
Questo è ciò che è successo a Olga (nome di fantasia), una delle tante donne che spesso trovano il coraggio di liberarsi dalle loro relazioni violente. Olga è una donna ucraina che, nel momento in cui si è rivolta alle forze dell’ordine per denunciare le violenze agite da quello che era il suo compagno, è stata rinchiusa nel Centro di Identificazione ed Espulsione di Ponte Galeria, da dove la deporteranno a breve, perché la sua condizione di “irregolare” ha prevalso sulla sua richiesta di aiuto. Non si tratta di un caso isolato: ogni giorno le migranti devono vivere sulla propria pelle gli effetti di questo stato che le umilia, le sfrutta, le criminalizza e imprigiona per perpetuare poi le stesse violenze all’interno delle mura infami di un CIE.
Ogni giorno le donne migranti portano avanti le loro resistenze a questo sistema razzista fatto di confini e galere.
Non chiediamo allo stato di difenderci dalla violenza che esso stesso produce e di cui si nutre.
Quello che vogliamo è continuare a sostenere le lotte di chi a tutta questa brutalità si ribella, di chi resiste nei CIE, di chi si oppone alle deportazioni.
Quello che vogliamo è la libertà per tutte le donne recluse.

nemiche e nemici delle frontiere

Qui di seguito la trascrizione della telefonata con la donna detenuta nel CIE di Ponte Galeria. A causa di difficoltà di comprensione dell’audio, alcune parti sono mancanti e alcune sono state integrate tra parentesi per facilitare la lettura. [Continua a leggere su hurriya]