Dall’Irlanda alla Palestina

Belfast, murale in solidarietà ai prigionieri politici palestinesi e irlandesi

In tutte le iniziative sulla Palestina a cui ho partecipato negli ultimi mesi – che si trattasse di cortei, presentazioni di libri o altro – non ho mai sentito nominare nemmeno lontanamente un aspetto che negli anni ‘70 e ’80 era chiarissimo a chi si occupava sia di Palestina che di Irlanda del Nord: la profonda impronta britannica che caratterizza il dominio e l’oppressione sionista.

Non mi riferisco solo al mandato britannico e alla “dichiarazione Balfour”, che ormai dovrebbero essere arcinoti anche ai sassi e sui quali, quindi, non sto a soffermarmi. Quello che, invece, mi sembra sfuggire è il legame tra la storia e le pratiche del dominio britannico in Irlanda e il dominio sionista nei territori palestinesi.

Non posso scrivere qui un trattato al riguardo, né indagare in profondità le complesse relazioni tra i servizi segreti britannici – in particolare MI5 – e il Mossad. Cercherò, piuttosto, di riportare le linee essenziali della mia riflessione in fieri, rimandando per gli approfondimenti alla lettura dei testi citati e all’infinito materiale che si può trovare in rete.

Mappa dei Plantations

Colonialismo d’insediamento
Ancora oggi in Irlanda – in particolare nelle 6 contee ancora sotto dominio britannico – canti e murales sono tra i principali veicoli della memoria storica. Dal bellissimo – se pure consunto dal tempo – murale di Belfast Otto secoli di occupazione, otto secoli di resistenza a You’ll Never Beat the Irish – cantata a squarciagola in ogni occasione – note e colori raccontano la storia di una popolazione indomita e la sua plurisecolare resistenza all’occupazione britannica.

Mappa storica dei Plantations

Se le prime tracce del dominio militare possono essere individuate nel 12° secolo, è con il Plantation of Ireland che comincia, nella seconda metà del ‘500, il vero e proprio colonialismo britannico di insediamento che vide confiscati ai capitribù irlandesi i loro territori per consegnarli al controllo e al possesso dei British tenants di religione protestante, anche allo scopo di prevenire e reprimere le ribellioni delle popolazioni locali – eclatante il caso del Plantation dell’Ulster e della costruzione, tra il 1613 e il 1618 della città fortificata di Derry.
Lo sviluppo dei Plantations ricorda senza dubbio, se pure con le dovute differenze, la strategia della sottrazione di territorio ai palestinesi cominciata coi kibbutz.

Genocidio
Per accelerare il genocidio della popolazione palestinese, ai continui bombardamenti che hanno raso al suolo la Striscia di Gaza decimandone gli abitanti e ai cecchini che sparano sui civili inermi, Israele ha aggiunto l’arma della fame. Esattamente come fece il dominio britannico a metà dell’800 in Irlanda. Le narrazioni mainstream raccontano ancora oggi di una grande carestia dovuta ad una forma aggressiva di peronospora che devastò le piantagioni di patate in Irlanda, ma ricerche storiche più recenti parlano di un vero e proprio “Olocausto irlandese” pianificato dalla Corona britannica per sterminare quella popolazione ribelle, negandole il cibo per esacerbare gli effetti letali della carestia dovuta alla “potato blight”.

Terrorizzare la popolazione
Nell’agosto 1969, al ritorno dalla manifestazione che annualmente ricorda il ruolo degli Apprentice Boys nella difesa di Derry – o, meglio, in questo caso Londonderry – del 1688, gli sfegatati lealisti, infuriati per i gloriosi tre giorni di battaglia del Bogside (Derry), diedero fuoco a tutte le case del quartiere proletario di Bombay Street a Belfast, supportati dall’esercito britannico, come è testimoniato dall’allora adolescente Michael McCann nel suo Burnt Out-How ‘the Troubles’ Began. Fatti che ricordano molto da vicino la quotidiana violenza dei coloni sionisti nei Territori palestinesi occupati da Israele.

Mappa in dotazione all’esercito di occupazione britannico all’epoca dei Troubles; in verde i quartieri repubblicani, in arancione quelli lealisti (Irish Republican History Museum, Belfast)

La cronaca quasi quotidiana di quegli anni è riportata con grande precisione nel testo Ireland, England’s Vietnam (1967) – pubblicato da Lotta Continua in Italia col titolo Irlanda, un Vietnam in Europa (1969) – testo di cui consiglio caldamente la lettura soprattutto a chi ancora pensa che la questione irlandese – come anche quella palestinese – si possa ridurre a questione religiosa e non, invece, di classe.
Se, infatti, è vero che il terrorismo estremista del reverendo protestante Ian Paisley, fondatore del DUP (gruppo paramilitare lealista), ricorda molto da vicino le dichiarazioni criminali di tanti rabbini israeliani che inneggiano alla cancellazione della popolazione palestinese, d’altra parte anche la questione palestinese non può essere ridotta a ‘problema’ tra ebrei e musulmani, avendo delle chiare connotazioni suprematiste e di classe.

Belfast: murale dedicato alle vittime dei proiettili di gomma e di plastica

La gestione del conflitto interno
Oltre alle armi da fuoco utilizzate dai militari e dalla polizia britannica nella sanguinosa repressione del conflitto sociale – di cui il massacro di Ballymurphy (Belfast, 1971) e la Bloody Sunday (Derry, 1972) non sono state che punte dell’iceberg – come non ricordare l’uso del gas CS o l’invenzione (tutta britannica!) dei letali proiettili di plastica e dei proiettili di gomma per la repressione dei Troubles, che ritroveremo prontamente utilizzati anche da Israele nella repressione della popolazione palestinese?
E come non ricordare, oltre alle continue irruzioni militari nelle case, il ricorrente uso della detenzione senza processo di cui sono vittime tanti/e palestinesi come lo sono stati tanti/e irlandesi? O le esecuzioni sommarie di combattenti nordirlandesi e di combattenti palestinesi?

Lato di un muro di separazione a Belfast; si notino le grandi telecamere, che dominano l’intera città, posizionate sul traliccio all’interno

I muri
Nelle 6 contee dell’Irlanda del Nord ancora sotto dominio britannico, oltre 30 km di muri (di cui 15 km nella sola Belfast) dividono fra loro i quartieri repubblicani da quelli lealisti.
Eretti inizialmente come barricate dagli abitanti dei quartieri repubblicani per difendersi dai ricorrenti attacchi lealisti, i muri arrivarono presto a costituire dei veri e propri confini interni alle città, delle roccheforti a difesa dei quartieri lealisti con tanto di torrette di guardia, come è ben visibile in questa immagine, scattata nel 2019 (i cancelli, per decenni veri e propri checkpoint militari, dagli accordi di pace del 1998 sono tenuti aperti durante il giorno).

Altro lato dello stesso muro, con torretta di guardia e cancello di accesso al quartiere lealista

Potrei continuare con gli esempi, ma credo che queste rapide suggestioni possano chiaramente mostrare le responsabilità britanniche nella repressione e nel genocidio della popolazione palestinese da parte di Israele.
Le responsabilità riguardano tutti i Paesi occidentali, ma nel caso britannico sono ancora maggiori, come dimostra anche la comoda posizione astensionista del Regno Unito al Consiglio di sicurezza dell’Onu nelle votazioni sulla necessità di un immediato (e definitivo!) cessate il fuoco. Se, infatti la rappresentante statunitense si esprime con voto contrario, la ‘cugina’ britannica nasconde furbescamente dietro l’astensione la ferocia di di un impero che, se pure apparentemente finito con la decolonizzazione, ha ancora e sempre le mani grondanti di sangue.
E di questo non dovremmo mai dimenticarci, come non se ne dimentica l’Irlanda nelle cui strade da decenni sventolano bandiere palestinesi.

Belfast: murale (2019)

Rompere il monopolio della memoria nell’Occidente guerrafondaio

Non intendo dilungarmi sulla miseria di chi da decenni vorrebbe ingabbiarci in una memoria acritica e a senso unico.

Storia e memoria vanno di pari passo, soprattutto quando la storia non è quella scritta dai vincitori e quando è fatta anche da cronache quotidiane di massacri trasmessi in tempo reale.

Vorrei fornire solo alcuni dati attuali, che parlano da sé.
Ma, prima di tutto, una domanda, per dare corpo a quei dati: il “mai più” che si va ripetendo per legge e fino alla nausea da anni, significa “mai più per nessuno” o “mai più solo per alcuni”?

Primo dato: le comunità ebraiche in Italia chiedono che domani, 27 gennaio, siano vietati i cortei per la Palestina, caso mai qualcuno si azzardasse a strappare loro il monopolio del genocidio e della relativa memoria. Eppure la modernità si apre con un immane genocidio: quello dei popoli nativi delle Americhe, di cui ne sono state sterminate decine di milioni in pochi decenni. Un genocidio coloniale, al quale ne sarebbero seguiti altri e poi altri ancora, fino a quello attuale in Palestina. Di quanti di questi genocidi abbiamo sentito parlare? Quanti ne vengono ricordati nelle scuole? (domanda, ovviamente, retorica…)

Secondo dato: nel novembre 2005, l’Assemblea Generale dell’Onu ha adottato per consenso la Risoluzione 60/7 condannando “senza riserve” tutte le manifestazioni (su base etnica o religiosa) di intolleranza, incitamento, molestia o violenza contro persone o comunità e, contestualmente, ha chiesto al Segretario Generale di istituire un programma di sensibilizzazione sull’Olocausto, nonché misure volte a mobilitare la società civile per ricordare l’Olocausto e prevenire futuri atti di genocidio. La genesi della “giornata della memoria” a livello internazionale (e istituzionale) tiene dunque conto della prevenzione: guarda al futuro e non solo al passato.

Terzo dato: che piaccia o meno ai sionisti e ai loro complici, oggi il tribunale internazionale dell’Aja ha confermato che esistono “prove sufficienti” per valutare l’accusa di genocidio nei confronti di Tel Aviv. Il ricorso, presentato dal Sudafrica a fine dicembre, accusava infatti Israele di violare la Convenzione sul Genocidio nella Striscia di Gaza.

Quarto dato: malgrado si stia assistendo ad un genocidio in tempo reale, proprio i paesi che nei secoli scorsi sono stati responsabili di massacri e genocidi coloniali oggi più che mai perseguitano chi osa schierarsi contro il genocidio del popolo palestinese. Il caso dell’educatore algerino di Roma perquisito senza nemmeno un mandato e sospeso dal lavoro è esemplare, soprattutto se pensiamo che l’Italia è stato il primo paese che ha imposto per legge un regime di apartheid nelle proprie colonie, un decennio prima che venisse imposto dalla minoranza bianca in Sudafrica.

Sarà un caso che non ci sia una giornata della memoria che ricordi i crimini compiuti nelle colonie italiane del Corno d’Africa? E che proprio quelle colonie, come ho ampiamente documentato in Difendere la “razza”, siano state il laboratorio delle leggi razziali che sarebbero state emanate in Italia successivamente, nel ’38?

Se davvero di memoria vogliamo parlare, parliamo anche dell’uso politico che della memoria – così come della storia – viene fatto.
Se davvero di memoria vogliamo parlare, chiediamoci perché le comunità ebraiche si preoccupino più dei cortei di solidarietà con la Palestina che della riorganizzazione dei gruppi e dei partiti neonazisti in tutto l’Occidente (talvolta perfino trattati come eroi, come nel caso degli Azov); chiediamoci perché da un anno una militante antifascista italiana si trovi rinchiusa nelle fetide galere ungheresi e nessuno ne abbia parlato per mesi e mesi.

Se davvero di memoria vogliamo parlare rompiamone, prima di tutto, il monopolio!

«Salviamo la nostra umanità dalle macerie di Gaza»

Il titolo di questo post è la chiusa dell’intervento toccante che Samah Jabr ha dovuto fare in videoconferenza, non potendo partire da Gerusalemme per venire in Italia. L’intero intervento, registrato e trascritto, lo trovate nel sito del collettivo Artaud, con altri materiali video sul lavoro di Samah.

Derry è con la resistenza palestinese!

Segnalo anche altri materiali di approfondimento, in italiano: il primo riguarda le ragioni economiche che stanno alla radice di questa ennesima mattanza sionista nel nuovo assetto geopolitico che va definendosi; il secondo si focalizza sulla Palestina come laboratorio su cui Israele testa nuovi armamenti e tecnologie di controllo da esportare – al riguardo consiglio anche la lettura dell’opuscolo Il sistema Israele e le sue tracce nel mondo (2011).

Per info sulla campagna di biocottaggio sia dei prodotti israeliani che dei marchi complici delle politiche sioniste di apartheid e genocidio (Puma, HP, AXA, Carrefour, MacDonald’s, ecc ecc ecc): BDS Italia.

Agli ignavi che ancora seguono i media mainstream consiglio la lettura della notizia sull’elicottero israeliano che ha sparato sui ravers in fuga il 7 ottobre scorso – notizia pubblicata su Haaretz che, se pure ripresa, da adnkronos è praticamente passata in sordina.

A proposito: anche l’ignavia è complicità…

Con la Palestina nel cuore!

Caring Communities

Siete voi, che io sappia, ad aver inventato il nome di “Antropocene”.
Vi siete intestati l’intero onore del disastro;
adesso che si compie è troppo tardi per rinunciarvi.
I più onesti tra voi lo sanno bene:
io non ho altro complice che la vostra organizzazione sociale,
la vostra follia della “grande scala” e la sua economia,
il vostro fanatismo per il sistema.

Monologo del virus

Generalmente non faccio uso di termini inglesi quando è possibile utilizzarne l’equivalente italiano, ma purtroppo tradurre l’espressione Caring Community significa anche tradirla e perderne il senso sociale e politico.

Questo limite evidenzia la nostra incultura, nella quale il concetto di “cura” presuppone un’asimmetria tra chi si prende cura e l’oggetto di tale cura e non, invece, la reciprocità tra i due (o più) soggetti.
Non per nulla l’italico legislatore si è inventato la categoria perversa delle “badanti” (il primo riferimento normativo è nella cosiddetta Legge Bossi-Fini, la Legge 189 del 2002), mistificando dietro questo participio la vita di tante donne – e alcuni uomini – sottratte alla propria storia ed ai propri affetti per “badare” (alias custodire e/o fare la guardia…) a delle persone che, nella stragrande maggioranza dei casi, non avevano mai visto prima.

Una Caring Community, intesa in senso politico, è tutt’altro. È, prima di tutto, una vera comunità e non per caso gli esempi che troverete qui di seguito vengono da luoghi che hanno vissuto l’esperienza del colonialismo, hanno resistito a tentativi più o meno evidenti di genocidio etnico e culturale e quotidianamente combattono contro lo sfruttamento, la marginalizzazione e rinnovati rischi di genocidio in nome del profitto.

La generosità del medici cubani, che tanto ha sorpreso i media nostrani, appartiene ad una cultura sedimentata che ha fra i suoi capisaldi la comunità e, al contempo, la solidarietà internazionalista e di classe.

Le comunità indigene e i movimenti latinoamericani sono dei fari nella miseria umana del presente. Al riguardo segnalo un bell’intervento di Zibechi.

Tutte queste comunità erano già tali prima di questa “epidemia” e oggi la stanno autogestendo rafforzando i legami, affinando le pratiche solidali e attingendo a conoscenze e saperi non egemonici su alimentazione e medicina.

Per queste comunità, la memoria dei genocidi perpetrati tanto dai colonizzatori europei che dai loro successori capitalisti e neoliberisti va di pari passo con l’autodifesa dei territori e delle popolazioni – a volta ancora “incontattate” – che li abitano.

In Perù il governo territoriale autonomo dei Wampis ha preparato e approvato un piano di emergenza contro la pandemia nel loro territorio, mentre ad Awayun la comunità ha ripreso il controllo e la gestione del territorio, allontanando con determinazione i militari.

I Sem Terra brasiliani nello stato di Pernambuco hanno raccolto e distribuito oltre tre tonnellate di frutta e verdura per il sostentamento delle famiglie più povere.

Nell’Amazzonia brasiliana si cerca di proteggere in particolare le popolazioni e i gruppi “incontattati”, la cui salute è messa a rischio da cercatori d’oro, allevatori e trafficanti di legname perché, come spiega la leader indigena Celia Xakriaba «Siamo consapevoli che la pandemia è una crisi per l’intera umanità, ma […] per noi popoli indigeni, il virus costituisce una concreta minaccia di sterminio».

I Mapuche cileni dichiarano: «È arrivato il momento di prenderci cura gli uni degli altri e avvicinarci tutti. Di darci forza, per difenderci per poter continuare a vivere». La “chiamata” dei Mapuche al loro popolo ha i toni della fiducia e della solidarietà e non i toni infantilizzanti e terroristici che ben conosciamo. Il modo stesso di spiegare in cosa consista il covid – definito un wigka kuxan, cioè una patologia che ha origine nella colonizzazione e/o nel contatto con i bianchi – attinge ad un universo culturale di riferimento in cui la malattia non è considerata semplicemente uno stato biologico o fisico, ma è effetto tanto di uno squilibrio sociale quanto di uno squilibrio con l’ambiente e gli esseri che appartengono agli spazi e ai territori.

Senza andare fino in America latina, anche una colonia interna all’Europa, quale l’Irlanda del Nord, trova nella sua storia di resistenza e solidarietà gli strumenti per affrontare il presente – mentre qui vige il distanziamento sociale, a Derry fra i consigli per affrontare la quarantena troviamo connect with others.

E lo fa con una particolare sensibilità nei confronti di quei soggetti più “fragili” (1, 2, 3, tanto per fare degli esempi) che nel resto d’Europa pagano il prezzo più caro: oggi più che mai, infatti, carcerati, senza tetto, poveri, disabili e anziani rappresentano l’inutile se non l’abietto.

Mi viene, così, un riso amaro quando sento parlare o leggo dell’importanza di creare, oggi e qui, “reti di vicinato”.

Al di là della visione urbanocentrica che sta dietro questa affermazione, è come se ci illudessimo di vedere comunità là dove ci sono semplicemente delle reti fittizie dettate dalla necessità contingente. Ma le comunità sono ben altro da queste reti fittizie, così come resistenza e autodifesa son ben altro dall’ormai inflazionata “resilienza”.

Quel “dopo” che ci sventolano sotto il naso come la carota che fa andare avanti l’asinello non sarà affatto piacevole se non saremo noi a determinarlo.

Fare i conti con il passato coloniale per trasformare il presente

"Italiani, brava gente"...

Testa del partigiano etiope Hailù Chebbedè, decapitato dagli italiani nel settembre 1937 (“La testa girava in una scatola di biscotti, tra la truppa ridacchiante. Dopo il dileggio, fu appesa nella piazza del mercato di Socotà e lasciata marcire”) Italiani brava gente, oggi come ieri!

Una decina di anni fa, presentando la mia ricerca Difendere la “razza”, scrivevo:
[…] Si tratta di un lavoro di tessitura fra importanti e innovative ricerche storiche e testi originali dell’epoca, attraverso la griglia interpretativa di Luciano Parinetto che, nel suo La traversata delle streghe nei nomi e nei luoghi (Colibrì, 1997), ha dimostrato come i territori colonizzati – a partire dalla conquista delle Americhe – siano stati il laboratorio delle politiche poi importate in Europa.
Se, infatti, il Nuovo Mondo è stato il terreno sperimentale dei dispositivi della caccia alle streghe europea, il Corno d’Africa è stato il laboratorio delle politiche razziali e sessuali attuate nell’Italia fascista.
Conoscere questa parte della nostra storia è urgente soprattutto oggi, col riattivarsi, sulla pelle di donne e uomini migranti, in nome della sicurezza,  di  vecchi  e  sperimentati  dispositivi  razzisti  e  deumanizzanti che si formarono proprio nei cinquant’anni dell’esperienza coloniale  in  Africa.
Molte  parole  “fascistissime”  dell’epoca  si  ripresentano  oggi  nel  linguaggio  quotidiano  così  come  torna  a  riaffacciarsi  sempre  più  prepotentemente  una  concezione  della  donna  e della famiglia di stampo clerico-fascista. […]

Andre Vltchek, in un suo recente articolo (tradotto qui), propone una lettura simile anche per la Germania, mettendo in luce le radici coloniali dell’olocausto.

C’è poco da aggiungere, se non invitare ad uno sguardo lucido sul razzismo e sul suprematismo contemporanei.
È, infatti, urgente comprendere a fondo come l’attuale “padroni a casa nostra” sia  l’altra faccia – quella coloniale e neocoloniale – di “padroni anche in casa altrui”, cioè di tutti i genocidi, i massacri, gli stupri e lo sfruttamento perpetrati nelle colonie da parte dei paesi europei.
Ed è altrettanto urgente agire di conseguenza, rompendo ogni complicità.
L’olocausto europeo ha radici in Africa. Ora la Namibia persegue legalmente la Germania
di Andre Vltchek

Senza capire cosa sia successo agli Herero e ai Nama, è impossibile capire cosa sia successo prima e durante la seconda guerra mondiale.

Nel 2014, dopo aver pubblicato il mio reportage sulla Namibia, in cui denunciavo la “semi-negazione” tedesca che aveva commesso un Olocausto nella sua ex colonia dell’Africa sud-occidentale; una rinomata università tedesca mi ha mandato una lettera. Parafraso, ma il contenuto della lettera è mantenuto intatto:
“Caro professore Vltchek, siamo impressionati dalla tua ricerca e dalle tue conclusioni e vorremmo tradurre e pubblicare le sie analisi pionieristiche in lingua tedesca. Purtroppo, non possiamo permetterci alcun pagamento…”

Era una delle principali università del paese, con enormi budget e una reputazione internazionale.

Ho risposto, chiedendo perché, con tutti quegli studiosi e accademici, con dottorandi e esperti, non avevano mai inviato un team di esperti in Namibia, per indagare su uno dei più orrendi crimini commessi nel XX secolo? Volevo sapere, perché avrebbero improvvisamente voluto fare affidamento sul lavoro di uno straniero, un estraneo, un internazionalista che si rifiuta di definirsi un accademico (per me ora è un termine totalmente screditato)? Assassinare il popolo Herero e Nama nell’Africa sudoccidentale dai tedeschi era, dopotutto, la chiave per comprendere ciò che accadde alcuni decenni dopo, proprio in Europa, durante l’Olocausto che la Germania continuò a commettere contro ebrei e rom. Continue reading

¿Dónde está Santiago?

Santiago-MaldonadoDiversi artisti hanno composto una canzone – ¿Dónde está Santiago? – per far conoscere al mondo la vicenda di Santiago Andrés Maldonado, “desaparecido” della democrazia argentina da oltre un mese. Il “patto di silenzio” tra governo e gendarmeria sulla sparizione di Santiago ci dice molto del capitalismo neocoloniale e neoliberista e dei suoi cani da guardia – come molto ci dicono gli intrallazzi del governo argentino col boia sionista Netanyahu.

2Inutile dire che di questo gravissimo fatto in Italia si sa poco-nulla, dato che di mezzo c’è l’immancabile gruppo Benetton, in prima linea nel lento genocidio della popolazione indigena Mapuche – il Popolo (che) della Terra (mapu) che da oltre un secolo lotta per riavere indietro i territori che gli sono stati sottratti dai governi argentini e cileni – in Patagonia, per mano di gruppi militari e paramilitari.  La famiglia Benetton è, infatti, il più grande gruppo proprietario terriero in Argentina, possiede circa 900.000 ettari di campo nelle provincie di Benetton_Chubut_-_Territorio_Mapuche_RecuperadoChubut, Rio Negro, Buenos Aires e Santa Cruz. Quelle terre, espropriate ai loro abitanti ancestrali, vengono deforestate e ridotte a pascolo per le migliaia e migliaia di pecore che diventeranno, poi, quei “bei” maglioncini, che grondano sangue indigeno, esposti nelle vetrine dei negozi Benetton.

Santiago Maldonado è “desaparecido” proprio quando, all’inizio di agosto a Cushamen, nel nord-est della provincia di Chubut, manifestava con un gruppo di Mapuche  in difesa del territorio e per chiedere la liberazione di Facundo Jones Huala, attivista della RAM (Resistencia Ancestral Mapuche) incarcerato in quanto figura di spicco nelle occupazioni delle terre appartenenti alla famiglia Benetton.

Come spiega un interessante articolo pubblicato su Resumen latinoamericano riportando le parole di Walter Barraza, del popolo tonokote, di Néstor Jerez, del popolo Ocloya e di Néstor Gabriel Velázquez, del popolo Guaraní – Lo scenario della repressione nella quale è avvenuta la sparizione forzata di Santiago Maldonado è il territorio delle comunità indigene, che sono costantemente vessate dai proprietari terrieri e dalle aziende impegnate nel settore minerario e in quelli della deforestazione e del petrolio, dal progressivo avanzare della frontiera dell’allevamento. […] “C’è una differenza abissale [tra terra e territorio]“, spiega il camache Barraza. “La terra parla di proprietà privata, è un concetto mercantilistico e, invece, il territorio ci include come persone, quindi ci obbliga a curare la natura. Noi nativi viviamo in armonia con i fratelli animali, le piante, l’acqua; siamo parte del territorio, che ci dà tutto quello di cui abbiamo bisogno. Deforestare è come amputare. La cultura occidentale ha un altro modo di vedere. Loro vengono per le risorse naturali, mentre noi viviamo in armonia con quelle risorse”. Continue reading

Lo stato è lo stato, il business è il business, il capitale è il capitale… E le donne?

Non sorprende che il noiosissimo tormentone sulle statue coperte per non “turbare” Rohani non abbia sfiorato il fatto che  l’Italia sia uno dei paesi che più utilizza, a fini commerciali, il corpo delle donne  – intero o a pezzi, a seconda dei gusti. (Mi chiedo, per altro, se gli abbiano messo il paraocchi perché non vedesse anche i cartelloni pubblicitari, le televisioni, ecc. ecc.).

Ma business is business (leggasi: il capitale è il capitale) e se usare i corpi femminili serve a vendere di più, d’altra parte per intascare fior di miliardi si può anche “censurare” una povera Venere.

Non si tratta di dispositivi differenti, anzi! Diciamo che l'”oggetto” donna viene svestito o impacchettato a seconda dei gusti del “cliente” e degli interessi del “venditore”. Così funziona lo stato patriarcale&capitalista. Non ci piove.

Questo stesso stato che si preoccupa di non turbare, con un paio di antiche tette marmoree, chi detiene il record delle impiccagioni, è anche quello che, dopo aver riempito gli ospedali di obiettori, ora pretende pure che le donne costrette ad abortire clandestinamente lo ingrassino con multe dai 5mila ai 10mila euro. E la chiamano “depenalizzazione”!!!

D’altra parte, come scrive Silvia Federici, È fondamentale vedere che oggi nella politica neoliberale, nella politica del capitalismo internazionale, non è tanto l’aborto in sé che conta, quanto il controllo sulla riproduzione. Non dobbiamo dimenticare che la stessa classe capitalistica che oggi cerca di limitare l’aborto è quella che in anni molto recenti organizzava i safari della sterilizzazione in India, in Indonesia. […] La questione è a chi spetta decidere, chi deve/può venire al mondo su questo pianeta: una decisione che gran parte della classe capitalistica, oggi, tanto quanto al tempo della caccia alle streghe, è determinata a non lasciare nelle mani delle donne. (S. Federici, Il punto zero della rivoluzione. Lavoro domestico, riproduzione e lotta femminista, Ombre Corte 2014)

Quando si tratta di controllo sul corpo e sulla sessualità delle donne, gli stati riescono sempre a dare il meglio di se stessi.
Altri due esempi. Continue reading

Violenza di genere e femminicidi politici

La violenza di genere ha sempre una valenza politica, dal mio punto di vista, poiché è uno strumento utilizzato per perpetuare il secolare dominio del genere maschile sulle donne. Poco conta se questo uso sia sempre consapevole o sia frutto di una mentalità che inferiorizza le donne fino a renderle proprietà maschile, dunque schiave dell’uomo. È un dato di fatto storicizzabile, da combattere alla radice.

Esiste, poi, un uso politico della violenza di genere e del femminicidio, il cui obiettivo non è ‘solo’ quello di terrorizzare le donne per mantenerle in condizione di schiavitù, ma anche quello di terrorizzare un’intera popolazione. Generalmente questo secondo aspetto va di pari passo con la guerra.
Nella storia se ne possono rintracciare innumerevoli casi; il più recente è quello della guerra che il governo di Erdogan sta portando avanti, con rinnovata ferocia, nei confronti della popolazione kurda.

Ciò che è avvenuto a Colonia e in altre città a capodanno è terribile, senza dubbio. E non deve stupire che la mentalità patriarcale faccia uso anche dei social network per organizzare violenze di massa. O continuiamo a pensare, stupidamente, che il patriarcato abbia a che vedere con il feudalesimo e nulla abbia a che fare con la modernità e le sue tecnologie?

Ricordiamo bene le aggressioni sessuali di gruppo in piazza Tahrir, al Cairo, quando orde di maschi circondavano le donne, le molestavano e le stupravano per ‘punirle’ della libertà che si erano prese scendendo in piazza a protestare. Ma dovremmo anche ricordare bene  come, nell’arco di breve tempo, si organizzarono i gruppi di difesa e autodifesa delle donne.
E così anche in India, e in tante altre parti del mondo. Continue reading

Sorridiamo, donne: arrivano le bombe!

Da che la Francia, per vendicarsi degli attentati di Parigi, ha cominciato a bombardare Raqqa, “capitale” del cosiddetto stato islamico, sui media on line compaiono articoli che raccontano di donne che “sorridono alle bombe”, perché finalmente possono scoprirsi il volto e i capelli, mentre i Daesh fuggono per salvarsi la pelle.

Un giornale scrive: «Le incursioni degli aerei da guerra rappresentano per loro un momento di pace, di gioia: mentre gli uomini di Al Baghdadi fuggono, atterriti dagli attacchi, loro, le donne dei civili, corrono a prendere una boccata d’aria. Il velo però lo lasciano nel buio delle loro case semidistrutte: la libertà merita di essere assaporata a volto scoperto».

«Le donne dei civili», avete letto bene! Non «le donne» e punto, perché anche alle nostrane latitudini proliferano la mentalità da sultani e la cultura dello stupro, e una donna è sempre “la donna di qualcuno”.

Ma, al di là di ciò, che le bombe rappresentino un momento di pace, di gioia e di libertà non riusciranno mai a farmelo credere.

Di fondo, stanno riciclando la stessa formula con cui, nel 2001, hanno provato a renderci complici della guerra in Afghanistan: usare la retorica della liberazione delle donne dal burqa per accattivarsi le simpatie femministe… Continue reading

Ellerinde Pankartlar

Abbiamo stampate negli occhi le immagini di donne e uomini che stanno cantando e ballando ad Ankara quando all’improvviso c’è la prima esplosione di questa ennesima strage di Stato in Turchia, di cui una genalogia si può leggere qui.

I manifestanti cantavano e ballavano Ellerinde Pankartlar, del famoso autore Ruhi Su, composta per commemorare le sanguinose celebrazioni del 1 maggio 1977 a Piazza Taksim, quando cecchini appartenenti all’estrema destra turca, in collaborazione con i servizi segreti, iniziarono a sparare sulla folla raccolta nella piazza. Almeno 37 persone vennero uccise ed oltre 200 ferite. Il Primo maggio 1977 fu un bagno di sangue che preannunciava il golpe del 1980.

Leggi il racconto che ne fa Sakine Cansiz – all’epoca incarcerata – nel suo libro Tutta la mia vita è stata una lotta.

Nel video circolato sabato scorso, quando la prima bomba esplode il gruppo sta per pronunciare la famosa strofa “questa piazza, la piazza di sangue”…

Erdogan assassino!
Biji Kurdistan!

1 maggio 1977, Istanbul

1 maggio 1977, Istanbul

10 ottobre 2015

10 ottobre 2015, Ankara

Con le bandiere in mano
Questi giovani, se ne vanno
Alzatevi in piedi, resistete
Questi giovani se ne vanno

Questa domenica, la domenica di sangue
affligge l’ingiustizia, fornisce il rimedio
Alzatevi in piedi, resistete
Questi giovani se ne vanno

Questa piazza, la piazza di sangue
La freccia è scoccata dall’arco
Alzatevi in piedi, resistete
Noi dalla città, voi dal villaggio

Continue reading