La Palestina è una donna col volto di Anaam…

Anaam, 90 anni. Spossessata dalla sua casa e sfollata dal suo villaggio nel 1948. All’età di quindici anni, durante la creazione dello Stato di Israele. La sua infanzia è sparpagliata in città lontane come ricordi sbiaditi. Ha conservato la chiave, sperando di tornare a casa sua un giorno. Non l’ha mai fatto.

Con queste poche righe in rete qualcuno ha commentato la seconda Nakba di Anaan (e della Palestina!), effetto del colonialismo sionista e della sua atroce pulizia etnica in atto da più di settant’anni.

Pochi anni prima di morire, Edward Said scriveva con lucidità in un articolo:

[…] Quel che avvenne nel 1948 è storia vera, una concretissima conquista, una reale espropriazione di un intero popolo. Fino a che tutto ciò non verrà riconosciuto non ci potrà essere pace, anche se le attuali leadership arabe hanno deciso di dimenticare il passato. E quando tutto ciò che è stato cancellato tornerà sulla scena imporrà un bilancio che non possiamo oggi immaginare […].

Postvittimismo ed esperienza trans

Quarantacinque anni fa Sylvia Rivera e tante/i altre/i reagirono con determinazione all’oppressione poliziesca, sociale e di genere dando vita alla rivolta di Stonewall, che rappresentò un momento di rottura radicale anche nei confronti dei dispositivi vittimizzanti.

Come scrivevamo nel 2007 io e Paolo Pedote, nella Premessa di We Will Survive!:

Sono passati quasi quarant’anni dalla rivolta esplosa nella notte
tra il 27 e il 28 giugno 1969 a New York quando trans, lesbiche
e gay si ribellarono all’ennesima irruzione della polizia all’interno
dello Stonewall Inn. Era allora in vigore negli USA una legge che
obbligava ad indossare almeno tre indumenti «consoni» al sesso
anagrafico. Azioni repressive come quella guidata dall’ispettore
Seymour Pine erano all’ordine del giorno: i poliziotti arrivavano
all’improvviso nei locali noti come punti d’incontro «omosessuali»,
le luci si accendevano, le persone presenti venivano separate in
gruppi a seconda del sesso anagrafico e portate al commissariato –
dove venivano poi rinchiuse e picchiate e dove spesso lesbiche e
trans venivano anche stuprate.
Stonewall segna un punto di non ritorno: quella volta la polizia
non ebbe la meglio e la rivolta proseguì nei giorni successivi, crescendo
d’intensità e coinvolgendo altri settori di movimento. […]

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Alcuni nessi concettuali tra ragione neocoloniale e violenza maschile contro le donne

Anche quest’anno la giornata contro la violenza maschile sulle donne è passata. L’immaginario vittimizzante non è mancato nemmeno questa volta, condito anche con un tocco kitsch.
Ma guardiamo al lato positivo: da oggi e per i prossimi 363 giorni si può ragionare al di là di sedimentate attitudini culturali.

Nelle scorse settimane mi ero decisa, dopo lungo tempo, a mettere in rete alcune mie riflessioni sul postvittimismo.
Ora vorrei fare un passaggio ulteriore. Anzi tre, come gli aggettivi con cui bell hooks connota il patriarcato: capitalista, suprematista, bianco.

Nel neocolonialismo individuo la sintesi di queste tre connotazioni e proverò a partire da qui, cioè dalla necessità che la lotta contro la violenza maschile sulle donne si coniughi – o torni a coniugarsi – con la critica di quella che possiamo definire ragione neocoloniale.

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