Miseria e arroganza del suprematismo

Dal blog dakobaneanoi, un interessante intervento di Dilar Dirik, giustamente impietoso nel mostrare le miserie della whiteness e dei suoi privilegi.
Buona lettura!

white_privilege L’immaginazione di alcuni esponenti della sinistra che vanno in Rojava dai paesi a capitalismo avanzato e si aspettano di trovare lì una rivoluzione senza macchia, perfetta, priva di contraddizioni, liscia e compiuta – e buttano via tutto quando non appare come se la sono raffigurata nelle loro versioni imbiancate che servono solo a rinforzare la loro struttura ideologica – illustra molto bene una questione più ampia della sinistra in Occidente: essa è troppo d’élite per conoscere le realtà sociali di base (perché la maggior parte di queste persone interessate non sono affatto “la base”: sono ontologicamente borghesi, a prescindere dalla loro presunzione), troppo positivista per cogliere le profonde questioni sociali che hanno molto più a che fare con le speranze e i dolori  storico-emotivi delle persone che con le strutture teoriche, e troppo pigra per sforzarsi e provare la fatica di mobilitare quello che astrattamente chiamano “il popolo”.

Il maggior problema  della sinistra bianca è quello di essere più occupata a parlare di radicalismo in modo inaccessibile, con compagni di lotta che godono degli stessi privilegi e dello stesso vocabolario, piuttosto che risolvere veramente i nodi gordiani della società.

In particolare, il maschio bianco istruito ha il lusso e il privilegio di poter visitare ogni luogo di rivoluzione, di appropriarsene a suo piacere e di criticarlo, senza clausole e senza mai sentire la necessità di guardare nel proprio cortile. [Non potrò mai perdonare l’arroganza della donna che, dopo aver trascorso tre giorni in Rojava, ha detto con disinvoltura “Sono andata in Afghanistan nell’anno X ed erano molto meglio organizzati di voi, ragazzi”]. Continue reading

Perché Kobane non è caduta?

Ho voluto tradurre e pubblicare questo intervento di Dilar Dirik sia perché l’ho trovato molto chiaro ed interessante, sia perché le sue parole sono la migliore risposta ai pregiudizi e alle banalità che ho sentito – e, spesso, anche letto – in questi mesi a proposito del percorso di trasformazione in atto in Rojava.
La traduzione di questo intervento è, dunque, curata da me; la versione originale è nel sito dell’autrice.

La rivoluzione delle donne in Rojava. Sconfiggere il fascismo costruendo una società alternativa
di Dilar Dirik

Questo brano è un capitolo del libro di Strangers in a Tangled Wilderness (a cura di), A Small Key Can Open A Large Door: The Rojava Revolution, 2015, Combustion Books.

La resistenza a Kobanê contro lo Stato islamico ha aperto gli occhi al mondo sulla causa delle donne kurde. Com’è tipico della miopia dei media, anziché considerare le implicazioni radicali delle donne che prendono le armi in una società patriarcale – soprattutto contro un gruppo che sistematicamente stupra e vende le donne come schiave sessuali – anche le riviste di moda oggi si appropriano della lotta delle donne kurde per i loro scopi sensazionalistici. I reporters spesso scelgono le combattenti più “attraenti” per le interviste e le esotizzano come amazzoni “cazzute”. La verità è che la mia generazione è cresciuta considerando le donne combattenti come un elemento naturale della nostra identità; non importa quanto sia affascinante – da un punto di vista orientalista – scoprire una rivoluzione delle donne tra i kurdi.
Le Unità di difesa popolare (YPG) e le Unità di difesa delle donne (YPJ) del Rojava (regioni nel nord della Siria a popolazione prevalentemente kurda) stanno combattendo il cosiddetto Stato islamico da due anni e attualmente conducono una resistenza epica nella città di Kobanê. Si stima che il 35% – circa 15.000 combattenti – sono donne. Fondate nel 2013 come esercito autonomo delle donne, le YPJ portano avanti operazioni e corsi di formazione indipendenti. Ci sono diverse centinaia di battaglioni di donne in tutto il Rojava.

Ma quali sono le motivazioni politiche di queste donne? Perché Kobanê non è caduta? La risposta è che una rivoluzione sociale radicale accompagna i loro fucili di autodifesa… Continue reading

L’autodifesa radicale delle donne kurde: armata e politica

Dal blog dakobaneanoi, un bell’intervento della femminista kurda Dilar Dirik che esplicita i nessi concreti (e i loro effetti materiali) tra postvittimismo – inteso come rottura dei dispositivi di vittimizzazione delle donne – ed autodifesa. Non manca, ovviamente, l’analisi del legame femminicida tra Stato, patriarcato e militarismo.

Buona lettura!

ypj3_dilardirik.jpg_1703677632Nell’immagine, due donne combattenti a Kobane

L’autodifesa radicale delle donne kurde: armata e politica
La resistenza delle donne curde opera senza gerarchia né dominazione ed è parte della più ampia trasformazione e liberazione della società.
Le potenti istituzioni del mondo operano attraverso la struttura-Stato, che ha il monopolio finale sul processo decisionale, sull’economia, e sull’uso della forza. Al tempo stesso ci viene detto che l’odierna violenza diffusa è la ragione per cui lo Stato ha bisogno di proteggerci contro noi stessi/e. Le comunità che decidono di difendersi contro l’ingiustizia sono criminalizzate. Basta dare uno sguardo alla generica definizione di terrorismo: l’uso della forza da parte di attori non statali per scopi politici. Non importa il terrorismo di Stato. Di conseguenza, le donne, la società e la natura vengono lasciate indifese, non solo fisicamente, ma socialmente, economicamente e politicamente.
 Nel frattempo, gli onnipresenti apparati di sicurezza dello Stato – che apertamente portano avanti economie di commercio di armi e traggono benefici dal contrapporre le comunità l’una contro l’altra per le loro sporche guerre – danno l’illusione di proteggere “noi” contro un misterioso “loro”.

Nel corso dell’ultimo anno, il mondo è stato testimone della storica resistenza della città curda chiamata Kobane. Che le donne da una comunità dimenticata siano diventate le più feroci nemiche del gruppo Stato Islamico – la cui ideologia si basa sulla distruzione di tutte le culture, le comunità, le lingue e i colori del Medio Oriente – ha sconvolto i patti convenzionali sull’uso della forza e sulla guerra. Kobane non passerà alla storia della resistenza umana perché gli uomini hanno protetto le donne o uno Stato ha protetto i suoi “soggetti”, ma perché donne e uomini sorridenti hanno trasformato le loro idee e i loro corpi in un’ideologica prima linea contro la quale si sono sgretolati il gruppo Stato Islamico e la sua stupratrice visione del mondo.

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