Caring Communities

Siete voi, che io sappia, ad aver inventato il nome di “Antropocene”.
Vi siete intestati l’intero onore del disastro;
adesso che si compie è troppo tardi per rinunciarvi.
I più onesti tra voi lo sanno bene:
io non ho altro complice che la vostra organizzazione sociale,
la vostra follia della “grande scala” e la sua economia,
il vostro fanatismo per il sistema.

Monologo del virus

Generalmente non faccio uso di termini inglesi quando è possibile utilizzarne l’equivalente italiano, ma purtroppo tradurre l’espressione Caring Community significa anche tradirla e perderne il senso sociale e politico.

Questo limite evidenzia la nostra incultura, nella quale il concetto di “cura” presuppone un’asimmetria tra chi si prende cura e l’oggetto di tale cura e non, invece, la reciprocità tra i due (o più) soggetti.
Non per nulla l’italico legislatore si è inventato la categoria perversa delle “badanti” (il primo riferimento normativo è nella cosiddetta Legge Bossi-Fini, la Legge 189 del 2002), mistificando dietro questo participio la vita di tante donne – e alcuni uomini – sottratte alla propria storia ed ai propri affetti per “badare” (alias custodire e/o fare la guardia…) a delle persone che, nella stragrande maggioranza dei casi, non avevano mai visto prima.

Una Caring Community, intesa in senso politico, è tutt’altro. È, prima di tutto, una vera comunità e non per caso gli esempi che troverete qui di seguito vengono da luoghi che hanno vissuto l’esperienza del colonialismo, hanno resistito a tentativi più o meno evidenti di genocidio etnico e culturale e quotidianamente combattono contro lo sfruttamento, la marginalizzazione e rinnovati rischi di genocidio in nome del profitto.

La generosità del medici cubani, che tanto ha sorpreso i media nostrani, appartiene ad una cultura sedimentata che ha fra i suoi capisaldi la comunità e, al contempo, la solidarietà internazionalista e di classe.

Le comunità indigene e i movimenti latinoamericani sono dei fari nella miseria umana del presente. Al riguardo segnalo un bell’intervento di Zibechi.

Tutte queste comunità erano già tali prima di questa “epidemia” e oggi la stanno autogestendo rafforzando i legami, affinando le pratiche solidali e attingendo a conoscenze e saperi non egemonici su alimentazione e medicina.

Per queste comunità, la memoria dei genocidi perpetrati tanto dai colonizzatori europei che dai loro successori capitalisti e neoliberisti va di pari passo con l’autodifesa dei territori e delle popolazioni – a volta ancora “incontattate” – che li abitano.

In Perù il governo territoriale autonomo dei Wampis ha preparato e approvato un piano di emergenza contro la pandemia nel loro territorio, mentre ad Awayun la comunità ha ripreso il controllo e la gestione del territorio, allontanando con determinazione i militari.

I Sem Terra brasiliani nello stato di Pernambuco hanno raccolto e distribuito oltre tre tonnellate di frutta e verdura per il sostentamento delle famiglie più povere.

Nell’Amazzonia brasiliana si cerca di proteggere in particolare le popolazioni e i gruppi “incontattati”, la cui salute è messa a rischio da cercatori d’oro, allevatori e trafficanti di legname perché, come spiega la leader indigena Celia Xakriaba «Siamo consapevoli che la pandemia è una crisi per l’intera umanità, ma […] per noi popoli indigeni, il virus costituisce una concreta minaccia di sterminio».

I Mapuche cileni dichiarano: «È arrivato il momento di prenderci cura gli uni degli altri e avvicinarci tutti. Di darci forza, per difenderci per poter continuare a vivere». La “chiamata” dei Mapuche al loro popolo ha i toni della fiducia e della solidarietà e non i toni infantilizzanti e terroristici che ben conosciamo. Il modo stesso di spiegare in cosa consista il covid – definito un wigka kuxan, cioè una patologia che ha origine nella colonizzazione e/o nel contatto con i bianchi – attinge ad un universo culturale di riferimento in cui la malattia non è considerata semplicemente uno stato biologico o fisico, ma è effetto tanto di uno squilibrio sociale quanto di uno squilibrio con l’ambiente e gli esseri che appartengono agli spazi e ai territori.

Senza andare fino in America latina, anche una colonia interna all’Europa, quale l’Irlanda del Nord, trova nella sua storia di resistenza e solidarietà gli strumenti per affrontare il presente – mentre qui vige il distanziamento sociale, a Derry fra i consigli per affrontare la quarantena troviamo connect with others.

E lo fa con una particolare sensibilità nei confronti di quei soggetti più “fragili” (1, 2, 3, tanto per fare degli esempi) che nel resto d’Europa pagano il prezzo più caro: oggi più che mai, infatti, carcerati, senza tetto, poveri, disabili e anziani rappresentano l’inutile se non l’abietto.

Mi viene, così, un riso amaro quando sento parlare o leggo dell’importanza di creare, oggi e qui, “reti di vicinato”.

Al di là della visione urbanocentrica che sta dietro questa affermazione, è come se ci illudessimo di vedere comunità là dove ci sono semplicemente delle reti fittizie dettate dalla necessità contingente. Ma le comunità sono ben altro da queste reti fittizie, così come resistenza e autodifesa son ben altro dall’ormai inflazionata “resilienza”.

Quel “dopo” che ci sventolano sotto il naso come la carota che fa andare avanti l’asinello non sarà affatto piacevole se non saremo noi a determinarlo.

…e sempre a proposito di militari, alcune significative “riflessioni dal margine”

adunata-alpini-trento-2018Lo scorso week-end a Trento si è tenuta l’adunata degli alpini.

Perfino il mainstream locale ha dovuto citare sessismo e pesanti molestie nei confronti delle donne (corredando l’articolo con una foto molto significativa…).

Quelle che potete leggere qui di seguito sono le riflessioni di una compagna al riguardo. Ringrazio chi me le ha inoltrate e, soprattutto, chi le ha scritte.

ESSERE DONNA E MULATTA IN TEMPI DI ADUNATA – Riflessioni dal margine

Maggio 2018. Trento, sicura, silenziosa, regina di decoro urbano si prepara ad accogliere 600.000 militari e simpatizzanti smaniosi di sfilare per giorni a passo di marcia.

Da settimane la città è in fermento, i camion di bitume rompono i silenzi notturni, squadre di pompieri vengono arruolate per onorare la patria e adornare le facciate di bandiere tricolore, anche la bella e ormai succube sede di sociologia si veste a festa e dà il benvenuto agli alpini.

Allora via le bici, disinfetta i parchi da migranti e accattoni, scattano ordinanze su ordinanze speciali. 10 maggio è tutto pronto.
La città è luccicante e disposta a delegare interamente l’ordine pubblico all’organizzatissimo Corpo degli Alpini, legittimati in ogni loro azione dal semplice essere forze dell’ordine e di conseguenza affidabili, solidali, caritatevoli rappresentanti dell’ordine costituito.

Il capoluogo si trasforma in cittadella dell’Alpino, come per ogni grande evento il capitalismo si traveste per l’occorrenza e subdolo si appropria di ogni cosa. Chiudono le università, chiudono le biblioteche, chiudono gli asili nido. Ogni via si riempie di uomini in divisa, penne nere, fiumi di alcol, cori e trombe. Diventa labirinto inaccessibile e sala di tortura per qualsiasi corpo che non risponda alle prerogative di maschio, bianco, eterosessuale. (ah, non deve avere coscienza critica, questo è chiaro)

Diventa impraticabile e pericolosa per me che sono donna e mulatta. Esposta in maniera esponenziale a continue aggressioni verbali e fisiche che intersecano razza e genere, dando vita ad una narrativa vissuta e rivissuta mille volte nei più svariati contesti. A chi importa il tuo vissuto, a chi importa da dove vieni, a chi importa chi sei, chi si ricorda di avere davanti una persona, a chi importa?
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Postvittimismo, ma davvero!

Parma-2Qui potete ascoltare il podcast dell’intervista che ho rilasciato a Radio BlackOut sull’iniziativa seminariale di Parma.
Qui la registrazione dell’intera iniziativa e qui una sintesi del laboratorio, per chi volesse proporlo nel proprio territorio.

Voglio ringraziare di cuore chi ha organizzato l’incontro e le numerose donne che vi hanno partecipato – venendo anche da Como, Milano, Roma, Bologna, Cremona e altre città – nonché le compagne della Coordinamenta che, ancora una volta, hanno dato un importante contributo alla lotta femminista e anticapitalista, e tutte le compagne che ci hanno sostenute in questo percorso.

Un abbraccio forte alle splendide donne che hanno partecipato allo stage di autodifesa femminista che si è tenuto a Parma sabato 20 e domenica 21 e tutta la mia solidarietà alle compagne che oggi vengono processate all’Aquila con l’accusa di aver diffamato il difensore di Francesco Tuccia – stupratore in divisa.

Grazie a tutte queste donne il postvittimismo camminerà con gambe sempre più forti e sicure, radicate nella consapevolezza di sé e nella lotta antipatriarcale, senza paura!

L’immagine di questo post riproduce uno dei cartelli esposti dalle compagne nell’aula magna dell’università di Parma, durante l’incontro seminariale di venerdì scorso.

Sincerità dell’immondizia…

melma[…] una fogna è un cinico, che svela ogni cosa.
Questa sincerità dell’immondizia ci piace e riposa l’anima: quando si è trascorso il tempo a subire sulla terra lo spettacolo delle arie che si danno la ragion di stato, il giuramento, la saggezza politica, la giustizia umana, le onestà professionali, l’austerità di certe posizioni, gli abiti incorruttibili, solleva entrare in una fogna e vedere della melma che ammette di esserlo. […] (V. Hugo)

Nessuna sintesi potrebbe essere più efficace per esprimere ciò che penso dei comunicati intrisi di calunnie che attaccano iniziative contro la violenza di genere, di chi si sta anchilosando le dita su tastiere e con tweet per spammare al mondo quelle calunnie, delle maestrine che pensano di doverci spiegare come si faccia un’assemblea (senza nemmeno informarsi se si tratti o meno di un’assemblea) e delle maestrine che si ritengono detentrici uniche dei saperi femministi e poi appoggiano piani antiviolenza (sedicenti “femministi”) che ancora una volta non tengono conto né delle pratiche di autodifesa femminista contro la delega della propria sicurezza allo Stato, né della necessità di sostenere le donne che finiscono in carcere per aver reagito alla violenza maschile.

Che ciascuna/o intraprenda la strada che vuole, ma facciamola finita con lotte di egemonia  il cui unico effetto è rafforzare il patriarcato e il crescente fascismo.

Nel blog della Coordinamenta potete leggere la lettera delle compagne che hanno organizzato l’iniziativa del 19 gennaio prossimo a Parma, il comunicato di Parmantifascista in relazione allo stesso evento, il mio comunicato e quello della Coordinamenta in risposta al testo divulgato dalla rete #iostoconclaudia.

Detto ciò, non ho intenzione di perdere altro tempo su questa infame vicenda.

Sorridiamo, donne: arrivano le bombe!

Da che la Francia, per vendicarsi degli attentati di Parigi, ha cominciato a bombardare Raqqa, “capitale” del cosiddetto stato islamico, sui media on line compaiono articoli che raccontano di donne che “sorridono alle bombe”, perché finalmente possono scoprirsi il volto e i capelli, mentre i Daesh fuggono per salvarsi la pelle.

Un giornale scrive: «Le incursioni degli aerei da guerra rappresentano per loro un momento di pace, di gioia: mentre gli uomini di Al Baghdadi fuggono, atterriti dagli attacchi, loro, le donne dei civili, corrono a prendere una boccata d’aria. Il velo però lo lasciano nel buio delle loro case semidistrutte: la libertà merita di essere assaporata a volto scoperto».

«Le donne dei civili», avete letto bene! Non «le donne» e punto, perché anche alle nostrane latitudini proliferano la mentalità da sultani e la cultura dello stupro, e una donna è sempre “la donna di qualcuno”.

Ma, al di là di ciò, che le bombe rappresentino un momento di pace, di gioia e di libertà non riusciranno mai a farmelo credere.

Di fondo, stanno riciclando la stessa formula con cui, nel 2001, hanno provato a renderci complici della guerra in Afghanistan: usare la retorica della liberazione delle donne dal burqa per accattivarsi le simpatie femministe… Continue reading

L’autodifesa è la mia forza!

La libertà è la nostra “fortezza”: con questo slogan è stata indetta, per martedì 28 luglio, un’iniziativa alla Fortezza da basso di Firenze (Viale Filippo Strozzi).
L’indizione sta circolando su facebook.

Auspico una grande partecipazione di donne, dopo che una giovane donna violentata nel 2008 proprio in quella zona si è ritrovata – tanto per cambiare – messa sotto processo per i suoi comportamenti ed il suo stile di vita – a detta dei giudici “non lineare”.
Qui potete leggere la lettera con cui ha pubblicamente risposto alla sentenza del tribunale.

Se riuscirò ci andrò, ma con lo slogan L’autodifesa è la mia forza, perché libertà e autodifesa vanno, per me, di pari passo. E intendo, con questo, l’autodifesa autogestita dalle donne, e non quella che ingrassa le tasche di ex-militari et similia che gestiscono le palestre, in particolare grazie ai vari “pacchetti sicurezza” che vittimizzano le donne.

Da questo punto di vista ci tengo molto a dire alle signore e ai signori di Human Rights Watch che se io avessi 16 anni e stessi in Rojava prenderei le armi contro gli stupratori di ISIS, malgrado le loro ‘umanitarie’ preoccupazioni per le/i minorenni che combattono nelle fila delle YPJ/YPG.

Perché un conto è evitare lo sfruttamento dei bambini e delle bambine – spesso orfani/e – nelle guerre; altro conto è impedire che una donna – adolescente o meno che sia – scelga le modalità della propria autodifesa, senza delegarla.

I ‘diritti umani’ (leggasi ‘globalizzazione degli ipocriti diritti e valori occidentali’) che costoro si arrogano di difendere, non comprendono anche l’autodifesa, evidentemente. E la cosa non mi sorprende, né mi sorprende che dal loro posizionamento privilegiato non ragionino sull’importanza – soprattutto per le donne, di qualunque età – di autodeterminare la propria sicurezza anziché delegarla ai vari “servitori” dello Stato…
La sentenza sullo stupro di Firenze docet, come sempre….

(A titolo informativo, qui è possibile leggere il comunicato con cui le Unità di difesa del popolo-YPG replicano alle dichiarazioni di HRW)

L’autodifesa radicale delle donne kurde: armata e politica

Dal blog dakobaneanoi, un bell’intervento della femminista kurda Dilar Dirik che esplicita i nessi concreti (e i loro effetti materiali) tra postvittimismo – inteso come rottura dei dispositivi di vittimizzazione delle donne – ed autodifesa. Non manca, ovviamente, l’analisi del legame femminicida tra Stato, patriarcato e militarismo.

Buona lettura!

ypj3_dilardirik.jpg_1703677632Nell’immagine, due donne combattenti a Kobane

L’autodifesa radicale delle donne kurde: armata e politica
La resistenza delle donne curde opera senza gerarchia né dominazione ed è parte della più ampia trasformazione e liberazione della società.
Le potenti istituzioni del mondo operano attraverso la struttura-Stato, che ha il monopolio finale sul processo decisionale, sull’economia, e sull’uso della forza. Al tempo stesso ci viene detto che l’odierna violenza diffusa è la ragione per cui lo Stato ha bisogno di proteggerci contro noi stessi/e. Le comunità che decidono di difendersi contro l’ingiustizia sono criminalizzate. Basta dare uno sguardo alla generica definizione di terrorismo: l’uso della forza da parte di attori non statali per scopi politici. Non importa il terrorismo di Stato. Di conseguenza, le donne, la società e la natura vengono lasciate indifese, non solo fisicamente, ma socialmente, economicamente e politicamente.
 Nel frattempo, gli onnipresenti apparati di sicurezza dello Stato – che apertamente portano avanti economie di commercio di armi e traggono benefici dal contrapporre le comunità l’una contro l’altra per le loro sporche guerre – danno l’illusione di proteggere “noi” contro un misterioso “loro”.

Nel corso dell’ultimo anno, il mondo è stato testimone della storica resistenza della città curda chiamata Kobane. Che le donne da una comunità dimenticata siano diventate le più feroci nemiche del gruppo Stato Islamico – la cui ideologia si basa sulla distruzione di tutte le culture, le comunità, le lingue e i colori del Medio Oriente – ha sconvolto i patti convenzionali sull’uso della forza e sulla guerra. Kobane non passerà alla storia della resistenza umana perché gli uomini hanno protetto le donne o uno Stato ha protetto i suoi “soggetti”, ma perché donne e uomini sorridenti hanno trasformato le loro idee e i loro corpi in un’ideologica prima linea contro la quale si sono sgretolati il gruppo Stato Islamico e la sua stupratrice visione del mondo.

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