Lo sfratto, la guerra e l’esilio

Un fiume di immagini e parole da settimane (da anni!) ci travolge, ci confonde, ci lascia ammutolite. Un intreccio di dolore e pudore della parola che non basta più – e che non è mai bastata – tra donne violentate nei lager per migranti, bambini chiusi nelle valigie o morti soffocati con le loro madri nelle stive e nei container, confini, guerre, fili spinati, militari, cani, fortezze-nazioni, fortezze-continenti, fortezze-forzieri…

Avevo scelto il silenzio, per non cadere nella banalità di parole scontate che nulla cambiano alla vita di chi, malgrado tutto, non perde il coraggio.
Ma ieri un’immagine ha fatto detonare la mia rabbia: la foto di una donna siriana che, al confine della Macedonia, bacia la mano di una soldata, nel mezzo degli scontri, per implorare di farla passare. Al dolore della guerra e dell’esilio questa maledetta fortezza Europa sa soltanto aggiungere il dolore dell’umiliazione a chi sopravvive al viaggio. Maledetta fortezza! Maledetta! MALEDETTA!!!

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Ho ripensato a quando, dieci anni fa, fra donne, amiche, compagne, dopo aver impedito che una di noi venisse sfrattata, abbiamo cominciato a raccontarci gli sfratti che ciascuna aveva vissuto nella propria vita e ne avevamo fatto un racconto corale, così come corale era stato, in precedenza, il nostro ‘NO!’ ad un guerra di cui ci avrebbero volute complici.
Con quel racconto avevamo, poi, sfidato un confine, partecipando ad un concorso letterario che chiedeva alle donne straniere di parlare delle italiane e viceversa; la nostra firma collettiva era ‘Shahrazad e le mille e una donna’.
Riprendendo ciò che, in parte, era rimasto fuori da quel racconto, avevo successivamente intrecciato le nostre parole con quelle di Christa Wolf e altre donne e oggi, con quelle stesse parole, voglio rompere il silenzio e l’orrendo senso di impotenza che il kapitale vorrebbe imprimerci nella carne, fino a disumanizzarci.

Lo sfratto e la pietra

“La sua voce ci salverà, anche questa volta”, pensava Cassandra ravvivando il fuoco nel camino.
Lei, veggente inascoltata, ascoltava affascinata quel canto.
“Con la sua voce ci salverà”, e quella certezza l’attraversava come una fluida, tiepida carezza.

La signora blues strappò
i suoi vestiti della domenica
e restò nuda in piedi nell’acqua
con tutte le sue cicatrici di schiava
che si vedevano
quando katrina arrivò soffiando
sopra new orleans
e le lacrime si sentivano dentro
la sua canzone
chiedendosi se non si vergognavano
ogni tanto di qualcosa. (1)

Shahrazad cantava il blues delle mille e una donna che il tempo aveva cancellato. Le riportava alla memoria, con le loro cicatrici. E la sua voce attraversava il tempo, lo spazio, i mondi. Quei mondi diventati ormai lontani ma che lei, Cassandra, vissuta sul confine tra Oriente e Occidente ancora sapeva tenere insieme: “Per me Occidente e Oriente non esistono, esiste la mia appartenenza che è séguito di come sono fatta io, dei miei atteggiamenti: dove ho imparato a vivere, dove mi sono più modellata”.

e lo zio sam prese la mano di Rossella O’Hara
e le disse di non guardare
mentre i libri di storia galleggiavano
intorno ai cadaveri
e la signora andava avanti a cantare
le canzoni di lavoro, le canzoni delle ferrovie
le canzoni delle barche sul Mississippi

Shahrazad continuava a cantare, guardandola con dolcezza. E cantava le cicatrici, le fragilità e l’orgoglio di un corpo che non nasconde la sua storia, né i suoi sogni.

e il vecchio zio sam prese la mano di Rossella O’Hara
e restò lì con le truppe e carri armati
e puntarono i fucili

“La guerra…”, pensava intanto Cassandra, “La guerra modella gli uomini di cui si appropria” (2).
Lo strazio della guerra era memoria viva nella sua carne: “Mi piacerebbe essere con mia mamma, con le mie sorelle, con mia nonna… Ma se le portassi qui, le sfratterei dalla loro vita e dalla loro terra. Ho lasciato il mio paese contro il mio volere allo scoppio della guerra. Il mio sfratto è iniziato allora.
Da quel giorno mi sento come una pianta in un vaso: perché una pianta vive nella sua terra, dove ci sono le sue radici, mentre io sono una pianta pronta a spostarsi, che vorrebbe essere trapiantata e che rimane sospesa in attesa che questo avvenga.
Questo luogo è diventato il mio vaso temporaneo. Temporaneo perché resta la voglia di tornare a casa e stare con la mia famiglia. Mi manca la libertà di poter partire e raggiungere mia mamma e mia nonna e stare con loro tutto il tempo che mi pare, questo per me è lo sfratto più grosso che vivo ogni giorno.
Quando vivevo nel mio paese, non sentivo alcun senso di appartenenza. Lo sento molto da quando sono arrivata qui, ma ora non posso tornare”.
Si abbracciarono, e Shahrazad riprese a cantare quasi sussurrando, come una ninna nanna

e le dicevano di smettere di cantare
di vestirsi con stelle e strisce
per coprire le catene
e i segni delle corde
intorno al collo
e di tornare alla casa del sole
ma lei rimase lì ferma nell’acqua

Shahrazad sapeva leggere negli occhi dell’amica e amava quello sguardo sulla realtà che nessun logos – incapace di concretezza – avrebbe mai potuto eguagliare.
Il suo canto scivolava su quegli occhi e quello sguardo, sulla sua capacità di tenere insieme i mondi e, con essi, passato, presente e futuro.

Trascorrevano spesso la notte insieme, complici d’una complicità antica.
Sharahzad l’aveva vista molte volte abbandonarsi al sonno, lasciarsi attraversare dai sogni. E molte volte l’aveva sentita svegliarsi, dire a se stessa che stava sognando e, senza paura, tornare a sognare. Bambina, Cassandra aveva ricevuto, nel sonno, il dono doloroso della veggenza inascoltata. Eppure continuava a sognare.
Shahrazad la guardava nella penombra della notte e pensava “È fragile perché si espone. È forte perché deve proteggersi. È come me: anche lei mille e una donna…”.

Ma quella notte era diversa, quella era la notte dell’attesa.
Era notte di veglia.
“Come quella volta, accanto al cavallo, con Mirina”, disse Cassandra ancora immersa nella memoria della guerra. “Vidi lei sola, una donna, armarsi gioiosamente quando gli uomini di Troia portarono nella città, contro le mie proteste, il cavallo dei greci; e rafforzai la sua decisione di vegliare presso il mostro, io con lei, disarmata” (3).
Ricordava Mirina, il suo volto, la sua gioia di vivere e di lottare: “La vidi scagliarsi sul primo greco che verso mezzanotte scese dal destriero di legno; gioiosamente, sì: gioiosamente! la vidi cadere con un colpo solo. Me, poiché ridevo, mi risparmiarono, come si risparmia la pazzia” (4).

Questa volta, Cassandra lo sapeva, nessuna di loro sarebbe caduta. Il pericolo non veniva dal ventre ingannevole d’un cavallo di legno. Veniva da fuori, lo sapevano, e si proteggevano a vicenda nella casa di pietra, come in un caldo ventre di donna. Quella notte di veglia non sarebbe stata di dolore, né di lutto. Anche quella notte avrebbero intrecciato le loro esistenze e i loro altrove.

“La lingua del presente si è ridotta alle parole per questa cupa fortezza” (5), aveva detto una volta Cassandra. Da lì era nata la loro alleanza: abbandonare ogni ‘cupa fortezza’ per l’altrove. Lo sapevano entrambe, e spesso se lo ripetevano: “Nello spostamento che ciascuna di noi ci chiede per vedere la differenza e vestircene, accade qualcosa, che ci consente di rimanere nella vita, nella materia ma contemporaneamente spostarci verso l’immaginazione di qualche cosa che non sappiamo ancora ma che potrebbe esserci”.
Ma ora dovevano difendere dallo sfratto la casa di pietra, il luogo dei loro incontri, dei sogni, dei canti, della vita. Quella notte di veglia sarebbe stata riscaldata dalle loro storie.

Per secoli inascoltata, Cassandra aveva imparato dall’amica l’arte del racconto e quella dell’ascolto: una notte, poi un’altra e un’altra ancora, e ogni notte Shahrazad era una donna diversa che raccontava una storia.
Era riuscita così, in un lontano passato, a salvare se stessa e le altre, mille e una donna.

Quando Shahrazad finì il suo canto, si accomodarono sulla nuda terra, accanto al camino. E cominciarono così a raccontarsi dei propri sfratti: “Sfratto per me vuol dire togliere il tetto dalla tua testa, obbligarti a cambiare percorsi; non avere più un tetto, un punto di riferimento. Per me è questo”, disse Shahrazad. Poi ci pensò un momento e aggiunse “Io credo di essermi autosfrattata, di essermi tolta il tetto sopra la testa. Cos’è questo tetto? È l’appartenenza. Anche oggi io vivo questa non appartenenza. La mia esistenza mi sembra quasi sempre così provvisoria, non permanente, che deve cambiare o qualcosa deve succedere. Io mi sono autosfrattata. Mi ha aperto altri orizzonti, altre conoscenze, altri rapporti – amori, affetti… Ma questo senso di non appartenenza rimane”.

Cassandra l’ascoltava rapita, attraversata dalle infinite emozioni che nascono quando le parole di un’altra diventano evocazioni, ricordi, e come parlando fra sé e sé disse “… un autosfratto dall’identità, come donna. Un momento di malessere totale, in cui avevo perso tutto… Frequentavo il mondo delle donne, eravamo costantemente alla ricerca dell’identità. Ma questa identità strideva enormemente… Io non potevo non essere mobile. Poi ho incontrato una donna, mi parlava della lacerazione, diceva che non c’è più un senso, non c’è più un linguaggio. Allora là io mi sono identificata nella lacerazione”. Poi prese dei fogli di carta, con delicatezza, e disse “Ho portato queste pagine per fartene dono a mia volta in questa notte d’attesa”.
Si mise sdraiata su un fianco e cominciò: “L’avete inteso, io parlo una lingua d’esilio… L’epoca attuale è un’epoca di esilio. Come ci si può impedire di sprofondare nel buon senso se non esiliandosi dal proprio paese, dalla propria lingua, dal proprio sesso, dalla propria identità? Niente si scrive senza un qualche esilio” (6).

Shahrazad sospirò pensando al dolore di Cassandra, all’esilio come guarigione.
“L’esilio”, riprese Cassandra, “è già, di per sé, una dissidenza” (7). E intanto ammirava il viso di Shahrazad la narratrice, rapito da quelle parole. “L’esilio spezza i legami, sino ai più profondi, quelli del Senso, quelli che ci tengono attaccati alla credenza che questa cosa – la vita – abbia un Senso garantito da un padre morto. Perché nell’esilio, se del senso esiste, niente lo incarna, ed esso non fa che prodursi e distruggersi nel cambiamento di spazi (geografici o di discorso)…” (8).
“L’esilio… La dissidenza…”, cominciò in controcanto Shahrazad, “Ogni volta che ho avuto degli sfratti in fondo poi ho avuto delle grosse resistenze a questi sfratti, e anche una grossa combattività – penso a quello dal lavoro o dalla politica. E poi, però, una volta che avevo organizzato la mia forma di resistenza, io cambiavo, e a un certo punto mi autosfrattavo da una situazione. C’era come un avanzamento, un cambiamento di me, il ricercare un’altra dimensione, andare avanti senza perdere delle cose.”
E aggiunse “Però secondo me lo sfratto è proprio l’abbandono di uno spazio, del tuo spazio – cioè anche l’abbandonare una casa. E forse nella mia vita, per quello che ho fatto, penso di essergli sempre andata incontro, comunque. Mi è sempre un po’ piaciuto essere sfrattata da un posto, quindi andarmene. E quindi secondo me sono sempre andata incontro allo sfratto per come lo intendo io. Per questo ho sempre cambiato casa, intesa non solo come luogo fisico dove vivere ma anche nelle amicizie e nei luoghi di riferimento. Ma non ho mai dovuto abbandonare una casa…”.
“Siamo viaggiatrici…”, le rispose Cassandra e cominciò di nuovo a leggere, “Nonostante l’opinione corrente, la viaggiatrice non ricerca un focolare natio né una terra propria o un rifugio familiare. Non vi sono ritorni, ogni arrivo è una partenza, un’erranza ricominciata sui territori della terra, del mare, dell’aria…” (9).

“A volte invidio il tuo desiderio di ritorno”, le disse Shahrazad, “Mi dà la sensazione di qualcosa di solido e io questo non lo conosco: avere un posto che ritieni tuo”. “Ma – aggiunse – penso a una cosa che per me è fondamentale: io ho una casa di pietra. Non c’è niente di più solido. E nello stesso tempo ho sempre cercato un posto dove non stare. Con grande contraddizione, perché il mio sogno era viaggiare, essere pirata o avventuriera”.
Sorridendo, Shahrazad ricordò “Quando mio padre mi chiedeva ‘Cosa vuoi fare?’ rispondevo ‘Voglio viaggiare’, ma non sapevo neanch’io cosa volesse dire questo. Sono rimasta affezionata a questi sogni, ma contemporaneamente legata, invece, alla ricerca di un luogo dove riconoscermi. Un luogo fatto di persone, anche.
Poi, alla fine, ho una casa di pietra.
Per un lungo periodo ho avuto soltanto mobili pieghevoli, perché volevo potermi spostare in qualunque momento. Non ho mai avuto un gatto. Non ho mai avuto un figlio. È come se cercassi di non costruirmi dei legami. E contemporaneamente, però, ho una casa di pietra. Che è la più solida che ci sia”.

S’interruppe, fissando il fuoco nel camino, intensamente, come per riempirsi di quel calore. Poi, all’improvviso, riprese “Lo sfratto dalla lingua… Quando io parlo non mi sento perfettamente padrona di quello che dico e ho sempre paura di non essere capita. Io ho sempre sentito lo sfratto per quello che sono; dove sono nata, mentre crescevo, ho sempre sentito questo senso di non appartenenza… Paura di mettere delle radici, di… Paura folle! Impedirmi di costruire delle radici… E, di volta in volta, trovare delle case… Delle case che erano dei contesti, dei luoghi, delle persone soprattutto. Il luogo dell’incontro possibile, un sogno, forse…”.
Cassandra ascoltava guardando le pareti di pietra viva intorno a sé, quelle pareti che ogni volta le suscitavano un senso di solidità, ma anche di libertà. Quelle pareti che, come un ventre di donna, davano calore senza imprigionare. E intanto pensava “Il senso di una casa di pietra è un luogo di resistenza e un luogo fisico. Nessuna di noi vuole essere fissa più di tanto ma è la combinazione della situazione, del luogo in cui siamo e delle persone che ti dà questo senso di accompagnamento, perché sai che hai delle compagne”.

Shahrazad sfiorò i capelli dell’amica, come ad accarezzarle i pensieri.
“Paura…”, riprese Cassandra, “Mi viene in mente che sto segretamente ripercorrendo la storia della mia paura. O più esattamente, la storia del suo scatenarsi, e, ancora più precisamente: del suo liberarsi” (10).

Improvvisamente si era messa seduta, gli occhi rivolti alla parete di pietra, storcendo la bocca. Shahrazad conosceva quella smorfia di rabbia e dolore: era il ricordo della guerra, che ritornava con violenza. Cercò di dirle “Noi creiamo luoghi con storie, tradizioni ed elementi di identificazione possibile e la capacità di socializzare in un mondo che ormai è un non-luogo… Tu hai vissuto una grande violenza perché non hai potuto scegliere…”.
Ma Cassandra, alzandosi in piedi di scatto, aveva cominciato ad urlare “Le donne… più durava la guerra, più provavano per i loro uomini imbarbariti una paura pari a quella per il nemico” (11), poi, voltandosi verso l’amica, prese respiro e disse, con improvvisa dolcezza, “Come te, ci siamo salvate raccontandoci mille e una storia, e là finalmente io ho sentito dei linguaggi che erano simili ai miei. Mi ricordo che, mentre sentivo le donne che raccontavano la guerra come era per loro, io mentalmente ri-tracciavo i fili di relazione con donne o di altri paesi, o che erano nate prima di me, o… Là io ho capito che, in realtà, era veramente un esilio, ed era veramente un altrove”.
Shahrazad si avvicinò, le prese la mano e ricominciò a cantare

La signora blues strappò
i suoi vestiti della domenica
e restò nuda in piedi nell’acqua
con tutte le sue cicatrici di schiava
che si vedevano
quando katrina arrivò soffiando
sopra new orleans
e le lacrime si sentivano dentro
la sua canzone
chiedendosi se non si vergognavano
ogni tanto di qualcosa.

Un pensiero repentino la distolse dal canto. “Devo dire del blues… Anche questo, in un certo senso, è la ricerca della storia di chi non partecipa in pieno a questa Storia inventata, che esclude tante storie… Come New Orleans… Tutti dicevano che erano rimasti shockati a vedere tutta questa gente povera. Allora io mi sono chiesta ‘Ma la storia degli Stati Uniti è la storia della schiavitù! Riguarda totalmente questo spostamento delle persone! Non è che siccome non se ne parla più allora la gente dimentica’. È come la memoria. Ma a un certo punto tutti hanno detto ‘Quello che non raccontiamo non esiste’”.

Cassandra, tornò a ravvivare il camino e, fissando le lingue di fuoco disse “Per me quello spazio che stiamo cercando è come se non fosse solido, ma una cosa fragile… Qual è l’opposto della fragilità? La brutalità. La fragilità è la nostra parte intima. Per me sono le mie paure, i disagi, le insicurezze. Non mi è facile raccontare: è un po’ un mio sogno che tengo per me. La fragilità come vulnerabilità, come interiorità. La fragilità io la vedo come fosse una leggerezza, come qualcosa di leggero, di pulito, di candido; il contrario della brutalità, che è violenza”. “In ogni posto – continuò Cassandra riprendendo un filo lontano di racconto – c’era quella parte dove se tu non ti rivelavi c’era sì una stabilità, però perdevi la tua identità – identità nel senso di specificità, quella cosa che è il cuore di come tu vivi il mondo e porti avanti questa ricerca di… Ecco, la libertà in quanto non dover sempre spiegare alla gente perché tu non corrispondi all’immagine che è stata preparata per gli altri quando ti guardano…”.

“È una fuoriuscita!”, disse Shahrazad con gli occhi fieri e sorridenti, e aggiunse “Quando qualcuno dice ‘In che città vorresti abitare?’, non c’è nessuna città. È una fuoriuscita. Non c’è nessun luogo che ti si offre dall’esterno che possa mai essere il tuo luogo. Devi fuoriuscire”.

“Nessun luogo che possa mai essere il mio luogo…”, Cassandra ripeteva le parole dell’amica, come a misurarle su di sé, “L’autosfratto è una cosa, però cercare di mantenere una casa è quello spazio dove tu puoi essere quella che sei, in tanti modi che… Ci sono momenti in cui vivi lo sfratto come violenza ed è importante la protezione che può essere la casa di pietra. Ho sempre messo in discussione parti della mia vita e sono stati processi sofferenti perché perdevo delle sicurezze. È importante in questi momenti avere dei punti di forza…”.

S’interruppe per stringersi all’amica in un lungo, tenero abbraccio.

Poi riprese in mano le pagine, fece due passi indietro e guardandola negli occhi disse “Per me questo spazio di apertura radicale è il margine, il bordo, là dove la profondità è assoluta. Trovare casa in questo spazio è difficile, ma necessario. Non è un luogo ‘sicuro’. Si è in costante pericolo. Si ha bisogno di una comunità capace di fare resistenza. Lo spazio del rifiuto da cui si può dire no al colonizzatore, a chi ti opprime, sta sui margini. Non si tratta di una nozione mistica di marginalità. È frutto di esperienze vissute” (12).
E tornarono a ravvivare il fuoco nel camino tenendosi per mano, in un silenzio denso di pensieri…

(1) Blues scritto da Betty Gilmore (10 settembre 2005)
the blues ripped off her sunday clothes/and stood there nude in the water/with all those slave scars/showing/when katrina blew into new Orleans/you could hear the crying/in her song/and old uncle sam took dixie by the hand/and told her not to look/while history books and dead bodies/floated on the water and the blues kept on singing/work songs and railroad songs/and river boat songs/and songs about saints and the Ku Klux Klan/and old uncle sam took dixie by the hand/and stood there with the soldiers and the tanks/and they pointed their guns/and told her to stop/and get dressed/in her stars and stripes/and cover up the chains/and the rope marks around her neck/and go back to the house of the rising sun/and she stood their nude in the water/wondering if they ever felt ashamed sometimes
(2) Christa Wolf, Cassandra, Edizioni e/o 1984, p. 18
(3) Ch. Wolf, Cassandra, cit, pp.10-11
(4) Ch. Wolf, Cassandra, cit, p. 11
(5) Ch. Wolf, Cassandra, cit, p. 19
(6) Julia Kristeva, L’eretica dell’amore, La Rosa 1979, p. 37
(7) Ivi
(8) Ivi
(9) J. Kristeva, L’eretica dell’amore, cit., p. 41
(10) Ch. Wolf, Cassandra, cit, p. 45
(11) Ch. Wolf, Cassandra, cit, p. 23
(12) bell hooks, “Elogio del margine”, in Elogio del margine. Razza, sesso e mercato culturale, Feltrinelli 1998, pp. 67-68