Inanna/Ištar: potenza della dea e immaginario postvittimista

Quando, circa un anno fa, ho partecipato ad un incontro con alcune donne kurde, mi aveva piacevolmente colpita il fatto che una di loro avesse aperto il proprio intervento citando la dea Ištar – la più importante divinità femminile mesopotamica – e ricordando che il Kurdistan si trova in Mesopotamia.

Quanto mi risuonava quel richiamo ad Ištar! Tanti anni prima avevo letto, rimanendone assai affascinata, gli inni dedicati alla dea Inanna, che successivamente sarebbe stata assimilata a Ištar, dea accadica, poi babilonese – a lei era dedicata una delle otto porte di Babilonia –  ed assira. Dunque una dea che è sopravvissuta per alcuni millenni mentre veniva ad affermarsi il patriarcato e che ancora oggi alimenta l’immaginario di donne in lotta per la propria liberazione, per la liberazione dei territori in cui vivono e per la costruzione di comunità che siano radicalmente ‘altre’ da quelle a dominio maschile e capitalistico.

Oltre vent’anni fa ho cominciato a studiare la civiltà sumera, convinta che lì e non in Grecia andasse cercata la “culla” della trasformazioni culturali successive. È, infatti, nei territori che si trovano fra il Tigri e l’Eufrate che avviene il passaggio dal paradigma nomadico a quello stanziale; lì troviamo il primo definirsi dello Stato – le città-Stato; lì troviamo in nuce il  concetto di tempo e quello di storia; lì sono nati la scrittura e la legge – anche se il codice di Hammurabi, più organico e complesso dei precedenti, sarebbe stato stilato nella successiva epoca babilonese, durante il suo regno tra il 1792 e il 1750 a. C. Ma, soprattutto e malgrado tutto, lì troviamo elementi ancora vivi di potenza femminile.

mesopotamiaLa civiltà sumerica ebbe il suo esordio ad Uruk, nella Mesopotamia meridionale, intorno al 3300-3100 a. C., ma  il termine ‘sumer’ comincerà ad essere utilizzato quando la civiltà sumerica sarà ormai estinta. I sumeri, infatti, definivano se stessi come ‘teste nere’, il che però non è da leggere come etnonimo.

Tra il 2500-2000 a. C. al sumerico subentra l’accadico e nel 2100 a. C. si ha l’estinzione del sumerico come lingua viva. I miti e gli inni sumeri verranno copiati e tradotti dai babilonesi all’inizio del secondo millennio a. C.

Inanna, dea poliade di Uruk, non è una dea-madre. Inanna presiede alla vita e alla morte, è “Signora” – cioè dea –  della fecondità della natura, dell’amore erotico (non quello coniugale), della bellezza ma anche della guerra e delle tempeste.
Inanna, custode della regalità e impietosita dall’ignoranza del genere umano, che vorrebbe veder vivere in prosperità e benessere, dona agli/alle abitanti di Uruk i me – le “tavole del destino” che garantiscono l’ordine universale – sottraendoli al dio Enki, che li custodiva lontano dagli umani, dopo che costui si era ubriacato mentre cercava di sedurla.
Dunque, Inanna dona alla sua città: l’eroismo, la potenza, il disonore, la rettitudine, il saccheggio delle città, l’intonazione delle lamentazioni rituali e la gioia di cuore; la falsità, il paese insorto, la pace, il percorrere dei viaggi e la sede stabile; l’arte del falegname, l’arte del fabbro del rame, l’arte scrittoria, l’arte di lavorare i metalli, l’arte del sellaio, l’arte del gualchieraio, l’architettura e l’arte dell’intrecciare le stuoie; l’intelligenza, la conoscenza, i sacri riti purificatori, l’ammucchiare dei mucchi di brace ardente, l’ovile, il timore reverenziale, la tensione che obbliga al timore reverenziale e il tacere deferente; l’accensione dei fuochi, lo spegnere i fuochi, il duro lavoro, la famiglia riunita; la lite, il grido di vittoria, l’arte del consigliare, l’arte di sapersi consigliare, l’emettere la sentenza e la distinzione.
In una parola: Inanna dona alle/agli abitanti di Uruk la civiltà che va definendosi, con tutte le sue contraddizioni ed esiti possibili. Inoltre, i me, materializzati e appesi alla cintura della “Signora” fanno parte degli elementi di cui Inanna si veste per attraversare confini (anche quello tra la vita e la morte), realtà, dimensioni differenti.
È, dunque, una divinità assi più complessa e dialettica rispetto, ad esempio, alle successive divinità femminili greche o latine.

Nelle tavole di argilla rinvenute nell’antico complesso templare dell’Eanna ad Uruk, risalenti al 3400-3000 a. C., troviamo la più antica attestazione del suo nome.
Con la rappresentazione del suo volto sul vaso di Uruk – primo vaso monumentale istoriato – incomincia il principio di individuazione, da cui deriva la capacità di categorizzare il reale. In esso troviamo il racconto figurato dell’incontro tra Inanna e il gran sacerdote, una ierofania, che testimonia il culto tributato alla dea.
L’evento culminante, cioè l’incontro tra la “Signora del cielo” e il sacerdote è presentato in cima, dunque il racconto rappresentato segue una logica a ritroso che è anche circolare, ad anello. Una forma della narrazione che, dal mio punto di vista, sta a cavallo tra la tradizione orale e quella scritta che viene affermandosi in quell’epoca con la scrittura cuneiforme, che è ideografica e sillabica al contempo.

Inutile dire che questa mia passione per la civiltà sumerica mi ha portata, una decina di anni fa, a studiare la scrittura cuneiforme – realizzata con uno stilo di canna su tavolette di argilla – al Centro Studi del Vicino Oriente di Milano.

E inutile dire quanto grande è stata la mia sorpresa quando ho scoperto che quella sorta di asterisco che nella scrittura cuneiforme simboleggia il cielo – e, dunque, la divinità sia maschile che femminile: diĝir – corrispondesse al simbolo che rappresenta Inanna come la “stella” Venere, “stella” luminosa della sera e del mattino!

Inanna

Il nome di Inanna, “Regina” del cielo

 

 

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dingir

 

 

 

 

Poiché non intendo scrivere un trattato ma cercare di mostrare la potenza di Inanna/Ištar che, dopo millenni, ancora nutre l’immaginario delle donne in lotta, mi soffermerò su due fra le figure maschili che più simboleggiano la lotta del patriarcato contro la potenza femminile di Inanna/Ištar.

Dumuzi è il re-pastore, “sposo” di Inanna – che, in quanto “Signora” è custode della regalità. Nella bellissima Discesa di Inanna agli inferi in visita alla sorella Ereškigal, si narra come la dea sia condannata a morte dai giudici degli inferi. Non vedendola tornare dopo tre giorni, la divinità-ancella Ninšubur si attiva per riportarla alla vita; ma perché Inanna torni dagli inferi ci vuole qualcuno che la sostituisca laggiù. I Galla, una sorta di geni asessuati o demoni del destino, le propongono di mandarci la fedele Ninšubur, ma Inanna rifiuta e sceglie, invece, di mandarci Dumuzi quando scopre che lo “sposo”, malgrado la morte negli inferi della sua “Signora”, se ne sta soddisfatto sul trono, riccamente vestito, senza osservare il lutto.
Il legame solidale fra donne emerge qui con forza, a fronte di un nascente patriarcato cerca di costruire il proprio potere sulla morte della potenza femminile.

Gilgameš, eroe “di fiero splendore” per due terzi divino e per un terzo mortale, protagonista dell’omonima saga scritta intorno al 2599 a. C., rifiuta violentemente le profferte sessuali di Ištar dicendole

Tu saresti come un forno che non fa sciogliere il ghiaccio,
una porta sgangherata che non trattiene i venti e la pioggia,
un palazzo che schiaccia i propri guerrieri,
un elefante che strappa la sua bardatura,
pece che brucia l’uomo che la porta,
un otre che inzuppa l’uomo che lo porta,
calcare che fa crollare il muro di pietra,
un ariete che distrugge le postazioni nemiche,
una scarpa che morde il piede del suo portatore.
A quale dei tuoi amanti sei rimasta per sempre fedele?
Quale dei tuoi superbi fidanzati è salito al cielo?
Vieni! Ti ricorderò uno per uno i tuoi amanti,
quelli che tu hai ardentemente posseduto.

La lista degli uomini che, dopo aver trascorso con lei la notte, non sarebbero sopravvissuti fino al mattino successivo, comincia da Dumuzi, a cui Ištar avrebbe “decretato il pianto anno dopo anno” mandandolo agli inferi.
Gilgameš rappresenta l’affermarsi dell’ordine patriarcale guerriero, che pretende di disciplinare i comportamenti femminili e che

si mostra superiore, tiene la sua testa alta come un toro selvaggio;
egli non ha rivali, le sue armi sono sempre sollevate
e al suono del suo pukku (tamburo) debbono accorrere i suoi camerati.
[…] Giorno e notte il suo comportamento è oppressivo

Addirittura, nell’enumerare ad Ištar la lista dei suoi amanti morti, cita anche il giardiniere Išullanu il quale, secondo gli inni dedicati ad Innana, aveva abusato della dea mentre stava dormendo. Gilgameš, però, accusa la dea di aver sedotto il giardiniere – con un invito esplicito: “stendi la tua mano, portala sulla mia vulva” – per poi bastonarlo e mutarlo in talpa. Ed ecco, quindi, il patriarcato che rovescia la donna violata in responsabile della violenza che ha lei stessa subito.

Che Gilgameš rappresenti il potere patriarcale lo confermano anche la sua alleanza con Enkidu – uomo primordiale creato dagli dei come controparte di Gilgameš per contrastarne l’arroganza, ma che ne diventerà, poi, carissimo amico e amante –  e l’ossessionata ricerca dell’immortalità, su cui, però, non posso ora soffermarmi.

Mi interessa, invece, rilevare come Gilgameš sia spesso rappresentato mentre domina un leone.

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inanna

 

Il leone era un simbolo accompagnatorio di Inanna, che è spesso rappresentata in relazione con questo animale.

 

 

 

 

 

Tornando, allora, al punto da cui ero partita, e cioè da come a potenza di questa dea sia tale da esser riemersa nell’immaginario a millenni di distanza, vorrei mostrare questa recente scultura, opera dell’artista kurdo Hadî Ziyaeddîn, dedicata alla resistenza delle donne kurde a Kobane.

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Il postvittimismo e l’autodeterminazione hanno bisogno di un immaginario liberato da dispositivi di vittimizzazione e sottomissione. Le donne kurde del Rojava ci stanno ampiamente dimostrando che questo è possibile, e lo dimostrano tanto come combattenti quanto col loro fondamentale contributo nella costruzione di una comunità altra e di una nuova umanità – che è, probabilmente, quello che ci vogliono trasmettere affermando “Noi non abbiamo mai perso la voglia di essere madri, ma questa maternità, questo amore, è per tutti i bambini, per l’umanità”.

Con questo testo, necessariamente sintetico, ho cercato di suggerire che la potenza e la determinazione che danno vita a pratiche femministe e postvittimistiche, nonché la “sorellanza” nelle nostre lotte di liberazione, possono attingere ad archetipi che sono nella nostra storia e nel nostro immaginario come donne, senza ricorrere alle sovrabbondanti e, spesso, falsificatorie versioni new-age di antiche divinità femminili.

Bibliografia
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G. Pettinato, I sumeri, Bompiani, 2005
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G. Pettinato (a cura di), Mitologia assiro-babilonese, Utet, 2005
S. Seminara, Le più antiche traduzioni del mondo. La “scienza” babilonese della traduzione e le sue regole, in Plurilinguismo. Contatti di lingue e culture, N. 7 (2000), Università degli studi di Udine
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K. Volk, A Sumerian Reader, Ed. Pontificio istituto biblico, 1999
D. Wolkstein e N. Kramer, Il mito Sumero della vita e dell’immortalità. I poemi della dea Inanna, Jaka Book, 1984

Per eventuali approfondimenti sul cuneiforme e la letteratura sumera: The Electronic Text Corpus of Sumerian Literature