Benvenuta Meriam? (Alcune note su Imperial Ladies&Gentlemen)

È superfluo dire che sono assai contenta che Meriam – donna sudanese condannata a morte – sia viva e vegeta. Ma non è di lei che voglio parlare, data la sovrabbondanza di articoli che i quotidiani odierni dedicano al suo arrivo in Italia.

Ciò che mi interessa analizzare è, invece, come la vicenda di Meriam sia utilizzata – da parte di Imperial Ladies&Gentlemen – come dispositivo funzionale all’ennesima celebrazione della cristianità e dell’Occidente neoliberista quali fari di civiltà e salvezza…
Celebrazione che permette la simultanea rimozione di tutte le donne, gli uomini e i/le bambini/e quotidianamente assassinati – perché di omicidi si tratta, non di ‘morti’, come ha ben messo in luce Baruda – dal salvifico e blindato Occidente, neoliberista e filo-sionista, tanto nel Mediterraneo quanto nella striscia di Gaza e in infiniti altri luoghi del mondo che sarebbe lunghissimo stare ora ad elencare tra guerre, sfruttamento, gas flaring, zone impoverite e trasformate nelle pattumiere tossiche del pianeta ecc ecc.

Da un paio di giorni – e non per caso – sui quotidiani vanno moltiplicandosi gli articoli che tendono ad alimentare quella fame di narrazioni di vittimità che Nirmal Puwar ha analizzato con acutezza in I volti svelati della buona meticcia:
La fame di narrazioni di “vittimità” ha una lunga storia. Al culmine dell’antropologia, le distinzioni fra l’Occidente e il resto del mondo diedero luogo a una giurisdizione epistemologica racchiusa in osservazioni, misurazioni, categorizzazioni, spettacoli e musei di curiosità. I corpi delle donne provenienti da questi “altri” luoghi rivestirono un ruolo
centrale nella produzione della differenza fra barbarico e civilizzato, proiettato da questi “altri” luoghi sulle figure femminili.
Nel rappresentare il fardello dell’uomo bianco così come della donna  bianca, le donne di “altri” luoghi hanno offerto a coloro che guardavano verso Est in cerca di carriera un sentimento di missione, definendo per loro un senso di identità quali politici, riformatori sociali, viaggiatori o accademici.
Il linguaggio del femminismo e della liberazione delle donne fu utilizzato dai colonialisti, per esempio Cromer, per rimarcare i confini tra l’occidente liberato e l’oriente barbarico, producendo così una soggettivazione della mascolinità coloniale bianca. Il fatto ironico è chementre gli uomini bianchi dell’establishment vittoriano si opponevano alla causa femminista nei propri paesi, essi catturarono il linguaggio del femminismo e del colonialismo e “lo deviarono, al servizio del colonialismo, verso gli Altri uomini e le loro culture”.

E così anche una terribile vicenda di stupro, attraverso la narrazione di vittimità, permette di ribadire quanto sia stato ‘umanitario’ – o, meglio, ‘donnitario’ – il criminale intervento militare in Afghanistan: […] Il caso è emblematico di come in Afghanistan sia sempre più difficile difendere le vittime di una violenza. Con il ritiro delle truppe internazionali gli attivisti per i diritti umani vedono venire meno risorse e sostegno […] si leggeva ieri sul Corriere della Sera. E oggi addirittura l’infibulazione viene riscritta, sull’Huffington Post, come pratica islamica – ma questi ‘masterizzati in immigrazione’ e inviati di guerra perché non vanno un po’ a chiedere anche alle cristiane africane cosa ne pensino di questa pratica e come mai da decenni abbiano messo in atto delle strategie di resistenza?

Le narrazioni di vittimità sono dispositivi neocoloniali che giovano al neoliberismo, come avevo già avuto modo di sottolineare in un post precedente.

Non sorprende il silenzio tombale (da tutti i punti di vista!) e omertoso di quelle che la cara amica e compagna Elisabetta Teghil definisce, acutamente, le prefiche della non-violenza:
Le muse della non-violenza che, ad ogni vetrina infranta, scrivono, con il cuore esulcerato, pagine di dura condanna nei confronti degli autori, con la stessa puntualità, di fronte alla violenza istituzionale, brillano per la loro assenza e per il loro silenzio.
I teorici della non-violenza, il nemico lo generano all’interno degli oppressi e secernono ogni sorta di metastasi disumana dove la non-violenza diventa la violenza di un sistema che perseguita ogni forma di singolarità, che vieta il conflitto, che lavora per instaurare un mondo che cassa ogni differente ordine del corpo, del sesso, della nascita.
Per le non-violente comunque, l’uso di etichettare questo o quell’altro comportamento come violenza politica non è altro che uno strumento per delegittimare segmenti della società, movimenti e le loro rivendicazioni.

D’altronde, come la stessa Elisabetta afferma, Il neoliberismo dà le vertigini a chi ne ha sposato la causa.

Così l’arrivo di Meriam a Ciampino permette di dimenticare che a Milano è in atto una caccia ai profughi eritrei ed etiopici organizzata e alimentata dai bottegai di corso Buenos Aires e dai fascistissimi ‘camerati’ di chi trafficava in armi col regime eritreo. Il tutto in un quartiere che da decenni è il tradizionale punto di ritrovo di immigrati/e del Corno d’Africa!
E permette anche di dimenticare che vanno moltiplicandosi i manganelli ‘di Stato’, sulle spiagge per ricchi della Versilia e altrove, contro i venditori ambulanti africani (definiti ancora col termine razzista ‘vù cumprà’!).

Una dannatissima replica di comportamenti che erano pane quotidiano durante il colonialismo e l’imperialismo italiano nel Corno d’Africa!

E allora, cara Meriam, non ti dico “Benvenuta in Italia” perché quando, tra qualche giorno, la tua storia non sarà più funzionale alle narrazioni di vittimità, conterà poco che tu non sia sbarcata da una ‘carretta del mare’ ma da un aereo, accolta con tutti gli onori. Vedrai…