Sorridiamo, donne: arrivano le bombe!

Da che la Francia, per vendicarsi degli attentati di Parigi, ha cominciato a bombardare Raqqa, “capitale” del cosiddetto stato islamico, sui media on line compaiono articoli che raccontano di donne che “sorridono alle bombe”, perché finalmente possono scoprirsi il volto e i capelli, mentre i Daesh fuggono per salvarsi la pelle.

Un giornale scrive: «Le incursioni degli aerei da guerra rappresentano per loro un momento di pace, di gioia: mentre gli uomini di Al Baghdadi fuggono, atterriti dagli attacchi, loro, le donne dei civili, corrono a prendere una boccata d’aria. Il velo però lo lasciano nel buio delle loro case semidistrutte: la libertà merita di essere assaporata a volto scoperto».

«Le donne dei civili», avete letto bene! Non «le donne» e punto, perché anche alle nostrane latitudini proliferano la mentalità da sultani e la cultura dello stupro, e una donna è sempre “la donna di qualcuno”.

Ma, al di là di ciò, che le bombe rappresentino un momento di pace, di gioia e di libertà non riusciranno mai a farmelo credere.

Di fondo, stanno riciclando la stessa formula con cui, nel 2001, hanno provato a renderci complici della guerra in Afghanistan: usare la retorica della liberazione delle donne dal burqa per accattivarsi le simpatie femministe…

All’epoca, una vignetta di Pat Carra distrusse con amara ironia il perverso dispositivo narrativo:

patOggi dovremmo, tutte insieme, ribadire alcuni dati di fatto:
1. le donne (così come gli uomini, i/le bambini/e, i cani, i gatti, l’ambiente naturale, ecc.) sotto le bombe non sono affatto felici;
2. le donne di Raqqa sono state blindate nelle loro case da bande di tagliagole e stupratori armate – direttamente o indirettamente – dall’occidente e dai suoi partner economici arabi;
3. tutto il mondo ha taciuto davanti alla devastazione di Kobane, al genocidio del popolo yezida a Shengal, alla riduzione in schiavitù delle bambine e delle giovani donne yezide e allo sterminio di quelle troppo attempate per poter essere vendute a dei sadici torturatori, all’occupazione di Raqqa come di buona parte della Siria e dell’Iraq;
4. chi dall’inizio non ha taciuto e, anzi, ha preso le armi per liberarsi di Daesh/Isis sono quei guerriglieri e quelle guerrigliere del Kurdistan che l’occidente considera “terroristi” perché si vogliano autodeterminare, quei guerriglieri e quelle guerrigliere che fanno attenzione a non creare vittime tra la popolazione civile, e che hanno insegnato alle donne – e non solo – le basi dell’autodifesa armata per proteggersi in caso di ulteriori incursioni o attacchi di Daesh;
5. chi continua a liberare le città siriane e iraqene dalla peste Daesh sono, ancora una volta, quei guerriglieri e quelle guerrigliere, anche se i media nostrani vedono bene di ignorarli – e di ignorare il genocidio del popolo kurdo che la Turchia ha ricominciato con ritmo serrato – parlando invece dei peshmerga di Barzani, cioè di coloro che all’inizio dell’agosto 2014 fuggirono a gambe levate consegnando, di fatto, Shengal e la sua popolazione, nonché le proprie armi, alle bande di fondamentalisti…
images6. in nome della maledetta lista dei gruppi “terroristici”, pochi giorni fa in Inghilterra è stata condannata una giovane donna, Shilan Ozcelik, accusata di voler partire ed unirsi a coloro che combattono contro Daesh/Isis.

Ci sarebbe ancora molto altro da aggiungere, ma poco mi importa, ora, completare il quadro dell’ipocrisia di chi arma certi gruppi per i propri interessi economici e poi li chiama “nemici” quando non servono più o quando si lascia, spesso volutamente, sfuggire di mano la situazione per continuare ad ingrassare l’industria bellica, questa volta combattendoli.

In occasione del 25 novembre si moltiplicano i piagnistei e i buoni propositi per debellare la violenza maschile sulle donne. Non oso immaginare cosa sarà quest’anno! Soprattutto se penso alla “strana” (?!?) coincidenza col vertice Nato a Firenze

Cercheranno di convincerci che, a differenza dei fondamentalisti, gli stati “democratici” ci stanno chiedendo di rinunciare alle nostre “libertà” in nome della sicurezza – quindi “per il nostro bene” – così come hanno riempito le strade delle nostre città di militari armati, sempre “per il nostro bene”.

Perché la donna è minus habens e non può che essere protetta, deve convincersene e  sorridere agli uomini in divisa, alle bombe che le piombano sulla testa, ai mariti/fidanzati/compagni che le dicono quanto è fortunata ad essere nata in questa o quell’altra parte del mondo –  sempre talmente civilizzata che se lei reagisce alla violenza maschile, verrà poi condannata dai tribunali dello stato! Sempre “per il suo bene”, naturalmente…

Se quest’anno vogliamo scendere in piazza contro la violenza maschile, facciamolo al fianco delle tante Vincenzina Ingrassia e Fatma Salbehi, a cui lo stato fa pagare la scelta di liberarsi dei mariti violenti, privandole della libertà o della vita.
Facciamolo al fianco delle combattenti yezide, che si sono armate per autodifendersi da torturatori e stupratori, e al fianco delle donne kurde – combattenti e non –  la cui potenza etica è già una rivoluzione in atto.
Facciamolo al fianco di tutte quelle che, in tutto il mondo, mettono in gioco la propria vita senza mediazioni, per difendere l’autodeterminazione.

A questo proposito, fuori dal coro dei piagnistei, una manifestazione di spirito postvittimista a cui abbia senso partecipare quest’anno, portando contenuti etici e politici, è quella che si terrà a Milano il 28 novembre, per gridare tutte insieme che La rivoluzione delle donne comincia in Rojava e non ha confini, e, soprattutto, che da qui non torneremo mai più indietro!

Manifesto-28-NOV