Sorridiamo, donne: arrivano le bombe!

Da che la Francia, per vendicarsi degli attentati di Parigi, ha cominciato a bombardare Raqqa, “capitale” del cosiddetto stato islamico, sui media on line compaiono articoli che raccontano di donne che “sorridono alle bombe”, perché finalmente possono scoprirsi il volto e i capelli, mentre i Daesh fuggono per salvarsi la pelle.

Un giornale scrive: «Le incursioni degli aerei da guerra rappresentano per loro un momento di pace, di gioia: mentre gli uomini di Al Baghdadi fuggono, atterriti dagli attacchi, loro, le donne dei civili, corrono a prendere una boccata d’aria. Il velo però lo lasciano nel buio delle loro case semidistrutte: la libertà merita di essere assaporata a volto scoperto».

«Le donne dei civili», avete letto bene! Non «le donne» e punto, perché anche alle nostrane latitudini proliferano la mentalità da sultani e la cultura dello stupro, e una donna è sempre “la donna di qualcuno”.

Ma, al di là di ciò, che le bombe rappresentino un momento di pace, di gioia e di libertà non riusciranno mai a farmelo credere.

Di fondo, stanno riciclando la stessa formula con cui, nel 2001, hanno provato a renderci complici della guerra in Afghanistan: usare la retorica della liberazione delle donne dal burqa per accattivarsi le simpatie femministe… Continue reading

Gineologia: un paradigma postvittimista per la liberazione

Ho voluto tradurre questo intervento sulla Gineologia perché credo possa essere un prezioso nutrimento per chi, nel movimento delle donne in Italia, sente la necessità di aggiornare la propria cassetta degli attrezzi nonché l’urgenza di un cambiamento radicale di metodo e di prospettiva in chiave postvittimistica.

Il giusto rifiuto nei confronti di un femminismo rampante che elemosina briciole di potere non è sufficiente a risolvere la difficoltà di mettere a fuoco pratiche in grado di rivoluzionare l’esistente dalle radici. Per scardinare il sistema patriarcale nelle sue declinazioni economiche, politiche, sociali e culturali occorre un nuovo paradigma.

Nei paesi occidentali gli Women’s Studies, nati in origine come strumento di critica dei saperi, si sono spesso ridotti ad uno sterile accademismo, del tutto innocuo nei confronti del sistema di sapere dominante – che talvolta li ha perfino sventolati come proprio fiore all’occhiello.

La Gineologia, invece, traendo le proprie radici da un percorso di trasformazione complessiva – qual è quello che le donne kurde stanno portando avanti con determinazione – ci conduce in un’altra direzione.
Sta anche a noi comprenderne la portata…

Ringrazio Nora, che ha fatto la revisione di questa non facile traduzione.

Per approfondimenti, si veda anche il mio Inanna/Ištar: potenza della dea e immaginario postvittimista

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Da Kurdish Question

Gönül Kaya è giornalista e rappresentante del movimento kurdo delle donne. Questo articolo è la trascrizione del suo intervento alla Jineology Conference che si è tenuta a Colonia (Germania) nel marzo 2014.

P11733-300x192erché la Gineologia? Ricostruire le scienze per una vita libera e comunitaria
di Gönül Kaya

Il Movimento delle donne libere del Kurdistan considera la Gineologia come un passo importante nell’autodifesa e nella lotta trentennale per la mobilitazione intellettuale e ideologico-politica.

Vorrei introdurre, seppur brevemente, i principi fondamentali della Gineologia, che il movimento kurdo delle donne offre al movimento delle donne nel mondo.

La Gineologia è descritta dalla lotta di liberazione delle donne kurde come la “creazione di un paradigma delle donne”. Questa posizione rappresenta una nuova fase dal punto di vista del movimento delle donne kurde. Continue reading

Sulla cultura dello stupro – Parte prima

Benché la cultura dello stupro sia ancora dominante, se ne parla ormai poco, soprattutto quando riguarda l’Occidente neoliberista.

Sono convinta che una prospettiva postvittimistica non trovi gambe per camminare se non rimette all’ordine del giorno l’analisi e la lotta contro questa cultura, a cui ci siamo talmente assuefatte da diventare, sempre più spesso, incapaci di riconoscerla nel nostro quotidiano.

Ho, così, deciso di cominciare a ripubblicare alcuni interventi di altre donne da cui chi vorrà potrà trarre spunti per analisi e – auspico – conseguenti pratiche.

Poco mi importa che si condividano al 100% questi interventi: il criterio in base al quale li ho scelti non è la corrispondenza col mio pensiero quanto, invece, il fatto che problematizzino il nodo in questione senza inutili dogmatismi o facili ricettucole trionfalistiche che non porterebbero da nessuna parte.

Mi auguro che questa prima ripubblicazione, a cui ne seguiranno altre, ci stimoli a recuperare le tracce di una memoria perduta, per scardinare le “cause che hanno portato gran parte del movimento delle donne su posizionamenti vittimistici facendo perdere quello slancio e quella radicalità che aveva negli anni ’70 […] alimentando un approccio “consumistico” della politica, del tipo usa-e-getta, che rende difficoltosa la continuità di un percorso politico collettivo” (Domande, riflessioni e spunti su etica, pratiche e orizzonti di liberazione, in dakobaneanoi).

Per cominciare, ho scelto un intervento di Mariella Bettarini e uno di Alyn Pearson, di cui potete fare il download cliccando sui nomi.

Dedico questo inizio di percorso alle due giovani donne indiane che il criminale e tutto maschile consiglio di villaggio aveva condannato allo stupro – fortunatamente senza riuscirci! – per riparare al gesto con cui il fratello aveva rotto la rigida gerarchia di caste.
La loro vicenda non riguarda soltanto un altro continente e dovrebbe sollecitarci a riconoscere e combattere la cultura dello stupro nelle sue declinazioni e dissimulazioni, oggi e qui.

Buona lettura!

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Lo sfratto, la guerra e l’esilio

Un fiume di immagini e parole da settimane (da anni!) ci travolge, ci confonde, ci lascia ammutolite. Un intreccio di dolore e pudore della parola che non basta più – e che non è mai bastata – tra donne violentate nei lager per migranti, bambini chiusi nelle valigie o morti soffocati con le loro madri nelle stive e nei container, confini, guerre, fili spinati, militari, cani, fortezze-nazioni, fortezze-continenti, fortezze-forzieri…

Avevo scelto il silenzio, per non cadere nella banalità di parole scontate che nulla cambiano alla vita di chi, malgrado tutto, non perde il coraggio.
Ma ieri un’immagine ha fatto detonare la mia rabbia: la foto di una donna siriana che, al confine della Macedonia, bacia la mano di una soldata, nel mezzo degli scontri, per implorare di farla passare. Al dolore della guerra e dell’esilio questa maledetta fortezza Europa sa soltanto aggiungere il dolore dell’umiliazione a chi sopravvive al viaggio. Maledetta fortezza! Maledetta! MALEDETTA!!!

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Ho ripensato a quando, dieci anni fa, fra donne, amiche, compagne, dopo aver impedito che una di noi venisse sfrattata, abbiamo cominciato a raccontarci gli sfratti che ciascuna aveva vissuto nella propria vita e ne avevamo fatto un racconto corale, così come corale era stato, in precedenza, il nostro ‘NO!’ ad un guerra di cui ci avrebbero volute complici.
Con quel racconto avevamo, poi, sfidato un confine, partecipando ad un concorso letterario che chiedeva alle donne straniere di parlare delle italiane e viceversa; la nostra firma collettiva era ‘Shahrazad e le mille e una donna’.
Riprendendo ciò che, in parte, era rimasto fuori da quel racconto, avevo successivamente intrecciato le nostre parole con quelle di Christa Wolf e altre donne e oggi, con quelle stesse parole, voglio rompere il silenzio e l’orrendo senso di impotenza che il kapitale vorrebbe imprimerci nella carne, fino a disumanizzarci. Continue reading

Dall’India, una bella lezione di postvittimismo

Le giovani donne delle Red Brigades Lucknow – gruppo nato nel 2010 nel Lucknow, in Uttar Pradesh (India), che si allena all’autodifesa e si organizza contro la violenza sulle donne – hanno sostenuto una loro coetanea nel dare una bella lezione, davanti all’intero quartiere, al vicino che ha cercato di stuprarla mentre dormiva.

Quanto avrebbero da imparare da queste fantastiche adolescenti certe nostrane sedicenti femministe che invadono la rete di blablabla, ma poi denigrano le donne che si autorganizzano contro la violenza maschile…

E quanto sarebbe didattica una simile reazione anche rispetto a certi medici che si arrogano il diritto di dire ad una donna aggredita “Eh, ma voi donne, pure… e poi, signora, siamo ad agosto. Sa…”.

Donne di Shengal, un anno dopo

Ricorre oggi il primo anniversario del genocidio di donne e uomini yezidi a Shengal (Sinjar), nel Kurdistan irakeno, per mano degli stupratori e massacratori di ISIS.

Fu solo grazie all’intervento dell’HPG (alias, il PKK) e delle guerrigliere delle YJA Star che venne aperto un corridoio di sicurezza per permettere alla popolazione yezida – scampata al massacro e ai rapimenti – di mettersi in salvo.

Nel video della cantante kurda Tara Mamedova, rivediamo quella tragedia impressa nei volti delle donne in fuga da Shengar.

Durante l’anno trascorso da allora, sempre più donne yezide sono entrate a far parte della guerriglia, in Unità di (auto)difesa esclusivamente di donne: le YPJ-Shengal.

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L’autodifesa è la mia forza!

La libertà è la nostra “fortezza”: con questo slogan è stata indetta, per martedì 28 luglio, un’iniziativa alla Fortezza da basso di Firenze (Viale Filippo Strozzi).
L’indizione sta circolando su facebook.

Auspico una grande partecipazione di donne, dopo che una giovane donna violentata nel 2008 proprio in quella zona si è ritrovata – tanto per cambiare – messa sotto processo per i suoi comportamenti ed il suo stile di vita – a detta dei giudici “non lineare”.
Qui potete leggere la lettera con cui ha pubblicamente risposto alla sentenza del tribunale.

Se riuscirò ci andrò, ma con lo slogan L’autodifesa è la mia forza, perché libertà e autodifesa vanno, per me, di pari passo. E intendo, con questo, l’autodifesa autogestita dalle donne, e non quella che ingrassa le tasche di ex-militari et similia che gestiscono le palestre, in particolare grazie ai vari “pacchetti sicurezza” che vittimizzano le donne.

Da questo punto di vista ci tengo molto a dire alle signore e ai signori di Human Rights Watch che se io avessi 16 anni e stessi in Rojava prenderei le armi contro gli stupratori di ISIS, malgrado le loro ‘umanitarie’ preoccupazioni per le/i minorenni che combattono nelle fila delle YPJ/YPG.

Perché un conto è evitare lo sfruttamento dei bambini e delle bambine – spesso orfani/e – nelle guerre; altro conto è impedire che una donna – adolescente o meno che sia – scelga le modalità della propria autodifesa, senza delegarla.

I ‘diritti umani’ (leggasi ‘globalizzazione degli ipocriti diritti e valori occidentali’) che costoro si arrogano di difendere, non comprendono anche l’autodifesa, evidentemente. E la cosa non mi sorprende, né mi sorprende che dal loro posizionamento privilegiato non ragionino sull’importanza – soprattutto per le donne, di qualunque età – di autodeterminare la propria sicurezza anziché delegarla ai vari “servitori” dello Stato…
La sentenza sullo stupro di Firenze docet, come sempre….

(A titolo informativo, qui è possibile leggere il comunicato con cui le Unità di difesa del popolo-YPG replicano alle dichiarazioni di HRW)

Perché Kobane non è caduta?

Ho voluto tradurre e pubblicare questo intervento di Dilar Dirik sia perché l’ho trovato molto chiaro ed interessante, sia perché le sue parole sono la migliore risposta ai pregiudizi e alle banalità che ho sentito – e, spesso, anche letto – in questi mesi a proposito del percorso di trasformazione in atto in Rojava.
La traduzione di questo intervento è, dunque, curata da me; la versione originale è nel sito dell’autrice.

La rivoluzione delle donne in Rojava. Sconfiggere il fascismo costruendo una società alternativa
di Dilar Dirik

Questo brano è un capitolo del libro di Strangers in a Tangled Wilderness (a cura di), A Small Key Can Open A Large Door: The Rojava Revolution, 2015, Combustion Books.

La resistenza a Kobanê contro lo Stato islamico ha aperto gli occhi al mondo sulla causa delle donne kurde. Com’è tipico della miopia dei media, anziché considerare le implicazioni radicali delle donne che prendono le armi in una società patriarcale – soprattutto contro un gruppo che sistematicamente stupra e vende le donne come schiave sessuali – anche le riviste di moda oggi si appropriano della lotta delle donne kurde per i loro scopi sensazionalistici. I reporters spesso scelgono le combattenti più “attraenti” per le interviste e le esotizzano come amazzoni “cazzute”. La verità è che la mia generazione è cresciuta considerando le donne combattenti come un elemento naturale della nostra identità; non importa quanto sia affascinante – da un punto di vista orientalista – scoprire una rivoluzione delle donne tra i kurdi.
Le Unità di difesa popolare (YPG) e le Unità di difesa delle donne (YPJ) del Rojava (regioni nel nord della Siria a popolazione prevalentemente kurda) stanno combattendo il cosiddetto Stato islamico da due anni e attualmente conducono una resistenza epica nella città di Kobanê. Si stima che il 35% – circa 15.000 combattenti – sono donne. Fondate nel 2013 come esercito autonomo delle donne, le YPJ portano avanti operazioni e corsi di formazione indipendenti. Ci sono diverse centinaia di battaglioni di donne in tutto il Rojava.

Ma quali sono le motivazioni politiche di queste donne? Perché Kobanê non è caduta? La risposta è che una rivoluzione sociale radicale accompagna i loro fucili di autodifesa… Continue reading

L’autodifesa radicale delle donne kurde: armata e politica

Dal blog dakobaneanoi, un bell’intervento della femminista kurda Dilar Dirik che esplicita i nessi concreti (e i loro effetti materiali) tra postvittimismo – inteso come rottura dei dispositivi di vittimizzazione delle donne – ed autodifesa. Non manca, ovviamente, l’analisi del legame femminicida tra Stato, patriarcato e militarismo.

Buona lettura!

ypj3_dilardirik.jpg_1703677632Nell’immagine, due donne combattenti a Kobane

L’autodifesa radicale delle donne kurde: armata e politica
La resistenza delle donne curde opera senza gerarchia né dominazione ed è parte della più ampia trasformazione e liberazione della società.
Le potenti istituzioni del mondo operano attraverso la struttura-Stato, che ha il monopolio finale sul processo decisionale, sull’economia, e sull’uso della forza. Al tempo stesso ci viene detto che l’odierna violenza diffusa è la ragione per cui lo Stato ha bisogno di proteggerci contro noi stessi/e. Le comunità che decidono di difendersi contro l’ingiustizia sono criminalizzate. Basta dare uno sguardo alla generica definizione di terrorismo: l’uso della forza da parte di attori non statali per scopi politici. Non importa il terrorismo di Stato. Di conseguenza, le donne, la società e la natura vengono lasciate indifese, non solo fisicamente, ma socialmente, economicamente e politicamente.
 Nel frattempo, gli onnipresenti apparati di sicurezza dello Stato – che apertamente portano avanti economie di commercio di armi e traggono benefici dal contrapporre le comunità l’una contro l’altra per le loro sporche guerre – danno l’illusione di proteggere “noi” contro un misterioso “loro”.

Nel corso dell’ultimo anno, il mondo è stato testimone della storica resistenza della città curda chiamata Kobane. Che le donne da una comunità dimenticata siano diventate le più feroci nemiche del gruppo Stato Islamico – la cui ideologia si basa sulla distruzione di tutte le culture, le comunità, le lingue e i colori del Medio Oriente – ha sconvolto i patti convenzionali sull’uso della forza e sulla guerra. Kobane non passerà alla storia della resistenza umana perché gli uomini hanno protetto le donne o uno Stato ha protetto i suoi “soggetti”, ma perché donne e uomini sorridenti hanno trasformato le loro idee e i loro corpi in un’ideologica prima linea contro la quale si sono sgretolati il gruppo Stato Islamico e la sua stupratrice visione del mondo.

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