Memoria condivisa? Con chi?!?

Per non cascare nella trappola nascosta dietro il “Giorno del ricordo”, ripropongo un lucido intervento di Claudia Cernigoi tratto dal sito dieci febbraio, che accompagno con immagini di partigiane yugoslave.

L’equivoco della memoria condivisa

Va innanzitutto detto che è necessario distinguere tra storia e memoria: la storia è una materia scientifica, una raccolta di fatti inequivocabili: le interpretazioni e le valutazioni possono poi essere diverse (e sono queste che creano “memoria), ma è un dato di fatto, ad esempio, che il 28 ottobre si compì la Marcia su Roma, evento che per i fascisti rappresenta una giornata di festa, mentre per gli antifascisti significa la fine della democrazia; così come il 25 aprile, giorno in cui si celebra la Liberazione dal nazifascismo, è per i nazifascisti giornata di lutto

Premesso questo, possiamo considerare che è ormai da più di trent’anni (dal cosiddetto “crollo del comunismo”) che stiamo assistendo alla progressiva distruzione della memoria storica di tutto quanto di positivo avevano fatto i paesi socialisti, soprattutto nella lotta contro il nazifascismo (va ribadito che in termini di perdite umane l’URSS e la Jugoslavia furono i Paesi che percentualmente ebbero più morti durante la Seconda guerra mondiale).

Di conseguenza abbiamo visto anche di anno in anno aumentare la criminalizzazione della Resistenza comunista, la ricostruzione delle vendette (vere o presunte) del dopoguerra, patrimonio all’inizio dei nostalgici del fascismo, che dopo avere messo a ferro e fuoco la propria Patria, massacrando i propri concittadini non omologati al regime golpista di Salò in una guerra fratricida, non avevano accettato di avere perso la guerra e di conseguenza avere anche subito regolamenti di conti ed esecuzioni capitali. In questo contesto, volendo parlare (ad esempio) del “triangolo rosso” dell’Emilia Romagna, dell’eccidio di Schio e dell’eccidio di Codevigo del Veneto, e molti altri casi simili, i testi che fino all’inizio degli anni ’90 erano stati patrimonio esclusivo della destra neofascista nostalgica hanno iniziato ad essere mutuati anche da insospettabili esponenti di “sinistra”, come i libri di Pansa che minimizzano i crimini fascisti per stigmatizzare la ferocia dei comunisti antifascisti.

Ma la cosa peggiore è avvenuta relativamente alla propaganda sulle “foibe” al confine orientale, con l’istituzione a partire dal 2005 del Giorno del ricordo, fissato il 10 febbraio, a ridosso della Giornata della memoria, in modo da collegare i due eventi in un tutt’uno, portando a termine quello che ancora negli anni ’70 lo storico triestino Giovanni Miccoli aveva definito “accostamento aberrante”, cioè il paragonare le “foibe” alla Risiera.
Il 27 gennaio si commemorano i milioni di morti causati dalla politica nazifascista che per raggiungere il proprio fine di “nuovo ordine europeo” aveva programmato a tavolino il genocidio di interi popoli, l’eliminazione totale degli oppositori politici e di quelle che venivano considerate “esistenze zavorra”, cioè pesi per la società, disabili, omosessuali, non autosufficienti. Il 10 febbraio, due settimane dopo, vengono commemorati allo stesso livello anche i morti genericamente attribuiti “all’espansionismo jugoslavo”, senza considerare che furono per la maggior parte militari morti nei campi di prigionia o fascisti e collaborazionisti condannati a morte dai tribunali jugoslavi (che avevano lo stesso diritto delle altre corti alleate di processare i criminali di guerra) o vittime di quella giustizia sommaria che fu comune a tutta l’Europa e che anzi nelle zone controllate dagli Jugoslavi fu di gran lunga inferiore a quella del resto d’Europa.
E, lo diciamo per inciso, noi che riportiamo dati storici a conferma delle nostre analisi che smentiscono la propaganda che parla di “migliaia” di “infoibati”, siamo noi ad essere criminalizzati come “negazionisti” ai quali dovrebbe essere vietato di parlare (cosa che spesso purtroppo avviene, in quanto le istituzioni ci negano le sale pubbliche, accogliendo le proteste della canea neofascista che ci vuole silenziati), mentre i diffusori di menzogne, bufale, quelle che oggi va di moda definire fake news, sulle foibe vengono invitati a parlare a convegni istituzionali, con un’esibizione di simbologia fascista che non sembra fare scandalo.

Questo “accorpamento” delle due ricorrenze ha portato ad un’interessante evoluzione del concetto di “memoria condivisa” perché le stesse autorità che il 27 gennaio nella Risiera di San Sabba a Trieste commemorano le vittime del nazifascismo, il 10 febbraio si recano invece alla foiba di Basovizza a ricordare coloro che causarono quelle vittime, se risultano in qualche modo “infoibati”, cioè arrestati dalle autorità jugoslave e scomparsi.

Così il 27 gennaio commemoriamo nella Risiera di San Sabba i caduti della missione alleata del capitano Valentino Molina (Gino Pelagalli, Sante de Fortis e la loro basista Clementina Tosi vedova Pagani), mentre il 10 febbraio, come “infoibati”, commemoriamo (in quanto furono arrestati dall’Ozna nel maggio 1945) i componenti del Gruppo Baldo agli ordini delle SS (Giovanni Burzachechi, già carabiniere entrato nelle SS da prima dello scioglimento dell’Arma, Ermanno Callegaris, Alfredo Germani e Remo Lombroni), che causarono l’arresto e la morte di Molina e dei suoi collaboratori.
Il 27 gennaio commemoriamo anche gli agenti di custodia deportati nei lager dove persero la vita, tra i quali Francesco Tafuro e commemoriamo gli ebrei triestini scomparsi nei campi di sterminio; ma il 10 febbraio si rende omaggio tra gli altri al capo degli agenti di custodia Ernesto Mari, che si trovò per alcuni mesi anche a tenere il registro degli ingressi al Carcere triestino del Coroneo, e che firmò il registro d’entrata di molti ebrei, tra cui i tre fratellini Simeone, Michele ed Isacco Gruben, rispettivamente di 11, 8 e 3 anni, imprigionati senza i genitori, l’ottantunenne avvocato Oscar Pick ed il settantottenne Adolfo Deutsch. Mari firmò anche la scarcerazione di questi, consegnandoli alle SS, che provvederanno ad inviarli tutti ad Auschwitz, dove trovarono la morte; Mari fu anche il responsabile dell’internamento in Germania di Tafuro (e di altri agenti di custodia che fortunatamente rientrarono dalla prigionia e testimoniarono contro di lui), ma, essendo stato arrestato in seguito alle accuse mossegli dai suoi ex sottoposti, fu ucciso e gettato nell’abisso Plutone da un gruppo di criminali comuni infiltratisi nella Guardia del popolo: perciò viene considerato “infoibato” e quindi commemorato in sede ufficiale degno (gli è stato persino intitolato il carcere triestino).

Il 10 febbraio vengono inoltre commemorati i 67 agenti dell’Ispettorato Speciale di PS che furono arrestati dalle autorità jugoslave a Trieste alla fine del conflitto, in quanto si erano resi responsabili di rastrellamenti, arresti arbitrari, esecuzioni sommarie, torture e violenze varie (come Alessio Mignacca e Domenico Sica, che picchiarono una donna facendola abortire); e citiamo anche l’agente Mario Suppani, responsabile dell’arresto (e della successiva esecuzione capitale) dell’anziano militante del Partito d’Azione Mario Maovaz, fucilato il 28 aprile 1945 e degli arresti di altri esponenti del CLN giuliano, tra i quali il democristiano Paolo Reti, poi ucciso in Risiera (commemorato il 27 gennaio, un paio di settimane prima di chi lo fece arrestare).

Il caso però più eclatante è quello dell’ultimo prefetto di Zara italiana, Vincenzo Serrentino (fondatore del Fascio in Dalmazia, squadrista, ufficiale della Milizia e nel Direttorio del PFR) che aveva anche svolto il ruolo di giudice a latere (assieme a Pietro Caruso, che fu poi fucilato a Roma alla fine della guerra) del Tribunale Straordinario per la Dalmazia (presieduto dal generale Gherardo Magaldi), che si spostava in volo da Roma per emanare condanne a morte ad antifascisti. Denunciato come criminale di guerra alle Nazioni unite, si era rifugiato a Trieste, dove fu arrestato l’8/5/45; sottoposto a processo, fu condannato e fucilato a Sebenico un paio di anni dopo. I familiari di Serrentino hanno ricevuto l’onorificenza prevista dalla legge sul Giorno del ricordo. Come sarebbe considerata un’eventuale onorificenza attribuita oggi ai familiari di Pietro Caruso, che con le stesse accuse fu fucilato dalle autorità italiane?

Vinka Kitarović, partigiana yugoslava attiva nella Resistenza italiana

La storia è unica, si diceva, ma la memoria è diversa. E se pure è difficile creare una memoria condivisa tra i parenti di Maovaz e quelli di Suppani, il parlamento italiano ci è riuscito perfettamente istituendo due giornate diverse per ricordare in ciascuna di esse l’una e l’altra categoria di morti.
Non mettiamo in dubbio che anche i partigiani che lottarono per il comunismo e la libertà commisero degli errori, “ebbero dei difetti”, come scrisse Pinko Tomažič, fucilato dai fascisti nel 1941: ma se li confrontiamo con i fascisti va considerato che erano diversi gli ideali di partenza, ideali di amore e non di morte, ideali di giustizia e non di prevaricazione.
A tutto coloro che oggi pretendono di assimilare il comunismo al fascismo, agli amministratori che accettano labari di formazioni fasciste e collaborazioniste alle manifestazioni ufficiali, ai magistrati che minimizzano i saluti romani in quanto non rappresenterebbero apologia di fascismo, agli eurodeputati che hanno votato l’immonda mozione di cui sopra, dedichiamo queste frasi di Italo Calvino (che di fascismo e antifascismo ne sapeva qualcosa).

… dietro il milite delle brigate nere più onesto, più in buona fede, più idealista, c’erano i rastrellamenti le operazioni di sterminio le camere di tortura le deportazioni l’olocausto…
… mentre dietro il partigiano più ladro, più spietato c’era la lotta per una società più pacifica più democratica e ragionevolmente più giusta.

La banalizzazione del male

Tante sono le cose che mi stanno nauseando in questi mesi in cui il covid sembra l’unico problema che ci riguardi.

In questa monodimensionalità riduzionista di ogni discorso, una questione più di tutte mi fa infuriare: il proliferare dell’uso del termine negazionismo.

Non bastanti i ‘negazionisti’ del covid – categoria in cui si ritrova infilato/a a forza chiunque non si allinei col discorso dominante – ora ci sarebbero anche i negazionisti della neve. Manca solo di sentir definire negazionista chi non crede nell’esistenza di una o più divinità…

Ma il negazionismo ha una sua precisissima connotazione storica e politica. Gli studi di Enzo Collotti sono preziosi per comprenderne l’ideologia e il progetto sottesi.

L’uso inappropriato e volutamente sommario di questo termine non fa che ridimensionare le responsabilità storiche di fascismo e nazismo.

Processo, per altro, in atto da decenni – e, va detto, anche con la complicità di certa sinistra venduta al neoliberismo.
La condanna politica dell’antifascismo militante, dalla Volante Rossa ad oggi, il moltiplicarsi di inviti al dialogo e alla libertà di parola di neofascisti e neonazisti, sono stati soltanto alcuni degli strumenti di questo processo, i cui effetti si rispecchiano anche nel rafforzarsi delle reti nazifasciste e nel loro riorganizzarsi sul piano militare.

Anche questa banalizzazione del male alimenta l’immonda cloaca ideologico-politica che ci sta sommergendo in questi mesi – e da cui non sarà semplice uscire per lungo tempo, se mai ci riusciremo.

Occorre ridare senso e rigore alle parole che usiamo e rifiutarci di parlare un linguaggio che umilia le nostre intelligenze. Occorre tornare a ragionare, a confrontarci e a non permettere alcuna laida operazione sulla nostra storia e sul nostro presente. E per fare tutto questo occorre ritrovare la nostra dignità. Senza timori.

L’immagine del post è tratta dalla copertina degli atti del convegno “Nazismo oggi. Sterminio e negazionismo” (Brescia 10.12.1993)

Dedichiamo il 25 aprile femminista alla partigiana Alma “Maria” Vivoda!

Alma “Maria” Vivoda è ritenuta la prima partigiana caduta. Aveva 32 anni e sulla sua testa di ribelle irriducibile pendeva una taglia di 10mila lire.

Femminista e internazionalista, fu uccisa in un’imboscata il pomeriggio del 28 giugno 1943 (quindi prima dell’8 settembre!) dal carabiniere Antonio Di Lauro mentre andava con un’altra compagna, Pierina Chinchio, all’appuntamento con Ondina Peteani – staffetta partigiana della “Brigata Proletaria”, composta da centinaia di operai dei cantieri di Monfalcone.

Racconta la stessa Pierina Chinchio:
«Alma ed io salivamo per la via Pindemonte. Incontrammo un milite della Polizia Ferroviaria, voltammo il viso per non essere riconosciute. Scorgemmo allora, tra i cespugli, un carabiniere a noi ben noto, di servizio a Muggia. Tutto accadde repentinamente. Il carabiniere cominciò a sparare, per fermarci. Alma estrasse una pistola e una bomba a mano, forse per dare anche a me un’arma per difenderci. Il carabiniere continuò a sparare all’impazzata e colpì Alma alla tempia. Io ero a terra, insanguinata. Egli mi affrontò (forse per eliminare l’unico testimone). Gli gridai se fosse impazzito. Intervenne il milite della Polizia Ferroviaria; il carabiniere gli ordinò di tenermi sotto tiro. Arrivò la Croce Rossa. Ritrovai Alma all’ospedale. Fino all’ultimo le restai vicina, tenendole la mano».

All’indomani del suo efferato omicidio un battaglione autonomo internazionale della 14ma Brigata “Garibaldi Trieste” – operativo in Istria e composto anche dalle compagne di lotta di “Maria” – prese il suo nome diventando la Brigata “Alma Vivoda”.

Alma non ha ricevuto alcun riconoscimento alla memoria (se non un piccolo monumento posto nel luogo in cui è stata uccisa) mentre invece nel 1958 l’Italia repubblicana insignì della medaglia di bronzo al valore militare per l’omicidio di Alma il carabiniere Di Lauro, con queste motivazioni:
«DI LAURO Antonio […] classe 1920, carabiniere, legione carabinieri di Trieste. Con prontezza di spirito e repida [sic] decisione non disgiunta da coraggio, reagiva a reiterata azione di fuoco da parte di un pericoloso ricercato riuscendo ad ucciderlo ed a catturare, dopo averlo ferito, altro delinquente. Trieste, 28 giugno 1943».

“Pericoloso ricercato”: Alma è stata uccisa due volte, come partigiana e come donna, dal fascismo e dall’Italia repubblicana.

Ricordare “Maria” con spirito ribelle in questo 25 aprile che vorrebbero blindato e imbavagliato è fondamentale.

Altro che cantare dalle finestre l’inflazionata e accomodante “Bella ciao”!

Cartoline da un paese incetriolato

Sono stufa, nauseata, schifata. Come tante altre e tanti altri in questo momento, sicuramente.

Stufa di chi esulta per la ‘fine’ (??) del Grande Cetriolo* II – che beveva ostentati mojito sulla spiaggia mentre donne, uomini e bambini emigranti pativano in mare – dimenticandosi dell’eredità dei razzisti ed autoritari ‘decreti sicurezza’ che ci ha lasciato anche grazie a una cricca di complici che oggi fan finta di defilarsi. E dimenticandosi anche di chi, da Napolitano a Minniti , a quei decreti ha preparato il tappeto rosso negli scorsi due decenni.

Sono nauseata da quella massa putrescente all’eterna ricerca dell’uomo forte che la faccia sentire viva (anche solo con un selfie):

Di colassù i berci, i grugniti, lo strabuzzar d’occhi e le levate di ceffo d’una tracotanza priapesca: dopo la esibizione del dittatorio mento e del ventre, dopo lo sporgimento di quel suo prolassato e incinturato ventrone, dopo il dondolamento, in sui tacchi, e ginocchi, di quel culone suo goffo e inappetibile a chicchessia, ecco ecco ecco eja eja eja il glorioso, il virile manustupro: e la consecutiva maschia polluzione alla facciazza del “poppolo”. E da basso e per tutto tutti i grulli e le grullacce fanatizzate della Italia a gargarizzarsene, a risciacquarsene l’anima, di quel bel colluttorio: che il Gran Cacchio, tumescente in tacchinesca lubido, aveva ejaculato su quell’ultimo podio, o balco, o arengario, dell’ultima erezione sua. Eretto nello spasmo su zoccoli tripli, il somaro dalle gambe a roncola aveva gittato a Pennino e ad Alpe il suo raglio. Ed Alpe e Pennino echeggiarlo, hì-hà, hì-hà, riecheggiarlo infinitamente, ejà-ejà, ejà-ejà, per infinito cammino de le valli (e foscoliane convalli). C. E. Gadda

Sono schifata dal crescente branco di stolidi la cui tracotante ignoranza è sintetizzabile nel continuare a cantare la marcetta militare Faccetta nera, senza nemmeno sapere che lo stesso Grande Cetriolo* I – di cui sono ferventi nostalgici – ne vietò la riproduzione all’indomani della dichiarazione dell’impero, nel ’36.

Sono stufa, nauseata, schifata dagli ignavi che guardano al proprio misero orticello come fosse l’ombelico del mondo e si preoccupano solo di riuscire a galleggiare nella merda. Ignavi dagli occhi incetriolati!

La recente, eclatante, scoperta di un missile aria-aria in possesso del trafficante d’armi Fabio Del Bergiolo e di due suoi degni compari ha coperto un dato di fatto molto più significativo: il fascismo non si sta semplicemente riorganizzando, ma si sta armando! Non è un caso che nel varesotto, nota zona di neonazisti, ci fossero armi e munizioni a volontà e altre ne sono state trovate nella casa del suddetto in provincia di Massa – altra zona ad alto tasso di fascisti dove, non più di un paio di anni fa, è stata scoperta un’intera cassa di armi sepolta nei boschi.

L’altro giorno, ad uno dei tanti cortei contro il tour estivo salviniano, con un compagno si parlava di come oggi non possa non esserci chiaro che in epoca nazifascista le popolazioni sapessero delle deportazioni e degli stermini messi in atto dal regime nazista e da quello fascista.

Oggi, come allora, lo stesso silenzio complice di fronte allo sterminio dell’etica e al trionfo del disumano.

E ancora oggi «il fascismo non è un fenomeno a sé, avulso dall’insieme delle altre ingiustizie sociali, ma una diretta conseguenza ed emanazione di queste», come scriveva Luigi Fabbri nel 1921…

Saluti da Cetriolandia!

* il riferimento è, ovviamente, al Grande Cetriolo di Gadda e non al Grande Cocomero dei Peanuts!

Una storia dimenticata, una storia da ricordare…

Chiamato a testimoniare sulla strage di Ballymurphy (Belfast, agosto 1971), Henry Gow – avvocato, ex militare delle forze britanniche, membro del famigerato SAS (Special Air Service) e poliziotto – ha dichiarato: « La gente di West Belfast dovrebbe essere grata che ci fosse disciplina nell’esercito britannico, altrimenti il bilancio delle vittime sarebbe potuto essere molto più alto».

Foto ‘d’epoca’ esposta al Bogside Inn (Derry)

La storia dell’Irlanda del Nord è ormai finita nel dimenticatoio. Pochi compagni e poche compagne, in Italia e altrove, ricordano il bagno di sangue perpetrato dalle forze coloniali britanniche dalla fine degli anni ’60 fino alle soglie del terzo millennio. Ma i sopravvissuti continuano a lottare per far emergere una verità che hanno conosciuto fin troppo bene sulla propria pelle: il progetto di sterminio di un intero popolo, che dopo 8 secoli di oppressione coloniale ancora non si arrende.

Dichiarazioni come quella di H. Gow riportata sopra confermano quanto sia importante quella verità, a fronte delle menzogne di Stato e delle coperture e connivenze che quelle stesse menzogne cercano ancora di occultare.

Chi volesse cominciare a recuperare il filo della memoria e capire meglio che scenari vadano delineandosi, in epoca di Brexit, nelle sei contee d’Irlanda ancora sotto il dominio britannico può ascoltare questi due interventi: 1, 2.

Avremo modo di tornare a parlarne, ma intanto GO ON HOME BRITISH SOLDIERS, GO ON HOME!

Fotografia tratta da ‘Irlanda. Un Vietnam in Europa’ (ed. Lotta Continua, s.d.)


Niente da aggiungere

Sullo stupro di Viterbo e sui suoi autori, Francesco Chiricozzi e Riccardo Licci, c’è ben poco da aggiungere rispetto a ciò che da dieci anni vado ripetendo a proposito della mia ricerca Difendere la ‘razza’, come è evidente nei primi 4.24 minuti di questo video.

Chi volesse vedere l’intera presentazione per immagini può andare a questi link:

Per una genealogia del razzismo italiano

Punto 7 del "Manifesto del Razzismo Italiano" (1938)

Punto 7 del “Manifesto del Razzismo Italiano” (1938)

In seguito alla recentissima ripubblicazione di Difendere la “razza”, ho ricevuto svariati inviti a presentare il libro in giro per l’Italia.
Sicuramente una presentazione con commento dal vivo delle immagini d’epoca – come uso fare –  è molto efficace, ma siccome non sarà possibile andare ovunque, ho pensato che fosse il momento giusto per pubblicare in video questo percorso iconografico sulla costruzione della “razza italiana” nell’epoca coloniale – liberale e fascista – e sulle intersezioni tra genere e “razza” nella storia del razzismo italiano, nonché dei loro effetti sul presente.

Da tempo avevo in cantiere questo progetto e mi fa piacere poter dare l’opportunità di approfondire tali tematiche a tutte/i coloro che hanno letto  e apprezzato il mio lavoro di ricerca – dato che nel libro manca questa parte iconografica –  così come a chi non l’ha ancora letto.

Ringrazio la Libreria Calusca, l’Archivio Primo Moroni e il Centro sociale Cox18 di Milano per averne organizzata (e registrata!) la presentazione il 21 ottobre scorso.
Un ringraziamento particolare va, poi, a Miriam Canzi, che è intervenuta all’iniziativa presentando il percorso curato da Alessandra Ferrini Archive as Method (Resistant Archives) (2018), di cui ha fatto parte come studente, relativo ai materiali del disperso Centro di Documentazione Frantz Fanon, e il più ampio progetto AMNISTIA. Colonialità italiana tra cinema, critica e arte contemporanea.
Gli audio del contributo di Miriam e del dibattito seguito alla presentazione si possono trovare nel sito web di Cox18.

Mi scuso per eventuali imperfezioni nel montaggio, ma era prima volta che usavo questo tipo di programmi. Sono comunque certa che tali imperfezioni non penalizzeranno l’originalità della mia lettura  e l’attualità dei contenuti.

Buona visione!

Parte I

Parte II

Parte III

Un contributo per smantellare la narrazione tossica sugli italiani “brava gente”

Per diventare “narrazione tossica”, una storia deve essere raccontata sempre dallo stesso punto di vista, nello stesso modo e con le stesse parole, omettendo sempre gli stessi dettagli, rimuovendo gli stessi elementi di contesto e complessità.
È sempre narrazione tossica la storia che gli oppressori raccontano agli oppressi per giusticare l’oppressione, che gli sfruttatori raccontano agli sfruttati per giustificare lo sfruttamento, che i ricchi raccontano ai poveri per giustificare la ricchezza.
Una narrazione tossica non si limita a giustificare l’esistente, ma è anche diversiva, cioè sposta l’attenzione su un presunto pericolo incarnato dal “nemico pubblico” di turno.
E il nemico pubblico di turno, guardacaso, è sempre un oppresso, uno sfruttato, un discriminato, un povero.
Stringi stringi, la fabula della narrazione tossica è la guerra tra poveri. (Wu Ming)

Questa definizione si addice perfettamente anche alle rimozioni ed omissioni sulla storia del razzismo e del suprematismo italiani, strettamente intrecciata alla storia di questo Paese dalla sua unificazione nel 1861. Una storia con cui è sempre più urgente fare i conti per poter smantellare la casa del padrone senza usare gli strumenti del padrone, come disse e scrisse Audre Lorde.

Per questo ho ritenuto necessario ripubblicare il mio lavoro di ricerca Difendere la “razza”, da tempo introvabile. Ringrazio la cooperativa editoriale Sensibili alle foglie che ha accolto con entusiasmo la mia proposta.

Il libro è ora di nuovo disponibile e lo si può richiedere qui.
Per eventuali presentazioni, potete contattarmi all’indirizzo email info@nicolettapoidimani.it

 

Che cosa si nasconde dietro la “teoria gender”?

caprioloNegli anni passati ho tenuto svariate conferenze sul progetto integralista cattolico di rievangelizzazione del linguaggio, sistematizzato nel Lexicon vaticano e volgarizzato nei ricorrenti e pretestuosi attacchi contro un’affabulata ’teoria gender’.

Dati i tempacci che corrono e soprattutto quelli tetri che si vanno prospettando, ho voluto riproporre un’analisi genealogica di questa crociata integralista, che mira a disciplinare desideri e comportamenti attaccando frontalmente l’autodeterminazione delle donne a livello planetario, ma non solo.

Ringrazio RadioCane per aver ospitato queste mie riflessioni, che potete ascoltare qui.