Dall’Irlanda alla Palestina

Belfast, murale in solidarietà ai prigionieri politici palestinesi e irlandesi

In tutte le iniziative sulla Palestina a cui ho partecipato negli ultimi mesi – che si trattasse di cortei, presentazioni di libri o altro – non ho mai sentito nominare nemmeno lontanamente un aspetto che negli anni ‘70 e ’80 era chiarissimo a chi si occupava sia di Palestina che di Irlanda del Nord: la profonda impronta britannica che caratterizza il dominio e l’oppressione sionista.

Non mi riferisco solo al mandato britannico e alla “dichiarazione Balfour”, che ormai dovrebbero essere arcinoti anche ai sassi e sui quali, quindi, non sto a soffermarmi. Quello che, invece, mi sembra sfuggire è il legame tra la storia e le pratiche del dominio britannico in Irlanda e il dominio sionista nei territori palestinesi.

Non posso scrivere qui un trattato al riguardo, né indagare in profondità le complesse relazioni tra i servizi segreti britannici – in particolare MI5 – e il Mossad. Cercherò, piuttosto, di riportare le linee essenziali della mia riflessione in fieri, rimandando per gli approfondimenti alla lettura dei testi citati e all’infinito materiale che si può trovare in rete.

Mappa dei Plantations

Colonialismo d’insediamento
Ancora oggi in Irlanda – in particolare nelle 6 contee ancora sotto dominio britannico – canti e murales sono tra i principali veicoli della memoria storica. Dal bellissimo – se pure consunto dal tempo – murale di Belfast Otto secoli di occupazione, otto secoli di resistenza a You’ll Never Beat the Irish – cantata a squarciagola in ogni occasione – note e colori raccontano la storia di una popolazione indomita e la sua plurisecolare resistenza all’occupazione britannica.

Mappa storica dei Plantations

Se le prime tracce del dominio militare possono essere individuate nel 12° secolo, è con il Plantation of Ireland che comincia, nella seconda metà del ‘500, il vero e proprio colonialismo britannico di insediamento che vide confiscati ai capitribù irlandesi i loro territori per consegnarli al controllo e al possesso dei British tenants di religione protestante, anche allo scopo di prevenire e reprimere le ribellioni delle popolazioni locali – eclatante il caso del Plantation dell’Ulster e della costruzione, tra il 1613 e il 1618 della città fortificata di Derry.
Lo sviluppo dei Plantations ricorda senza dubbio, se pure con le dovute differenze, la strategia della sottrazione di territorio ai palestinesi cominciata coi kibbutz.

Genocidio
Per accelerare il genocidio della popolazione palestinese, ai continui bombardamenti che hanno raso al suolo la Striscia di Gaza decimandone gli abitanti e ai cecchini che sparano sui civili inermi, Israele ha aggiunto l’arma della fame. Esattamente come fece il dominio britannico a metà dell’800 in Irlanda. Le narrazioni mainstream raccontano ancora oggi di una grande carestia dovuta ad una forma aggressiva di peronospora che devastò le piantagioni di patate in Irlanda, ma ricerche storiche più recenti parlano di un vero e proprio “Olocausto irlandese” pianificato dalla Corona britannica per sterminare quella popolazione ribelle, negandole il cibo per esacerbare gli effetti letali della carestia dovuta alla “potato blight”.

Terrorizzare la popolazione
Nell’agosto 1969, al ritorno dalla manifestazione che annualmente ricorda il ruolo degli Apprentice Boys nella difesa di Derry – o, meglio, in questo caso Londonderry – del 1688, gli sfegatati lealisti, infuriati per i gloriosi tre giorni di battaglia del Bogside (Derry), diedero fuoco a tutte le case del quartiere proletario di Bombay Street a Belfast, supportati dall’esercito britannico, come è testimoniato dall’allora adolescente Michael McCann nel suo Burnt Out-How ‘the Troubles’ Began. Fatti che ricordano molto da vicino la quotidiana violenza dei coloni sionisti nei Territori palestinesi occupati da Israele.

Mappa in dotazione all’esercito di occupazione britannico all’epoca dei Troubles; in verde i quartieri repubblicani, in arancione quelli lealisti (Irish Republican History Museum, Belfast)

La cronaca quasi quotidiana di quegli anni è riportata con grande precisione nel testo Ireland, England’s Vietnam (1967) – pubblicato da Lotta Continua in Italia col titolo Irlanda, un Vietnam in Europa (1969) – testo di cui consiglio caldamente la lettura soprattutto a chi ancora pensa che la questione irlandese – come anche quella palestinese – si possa ridurre a questione religiosa e non, invece, di classe.
Se, infatti, è vero che il terrorismo estremista del reverendo protestante Ian Paisley, fondatore del DUP (gruppo paramilitare lealista), ricorda molto da vicino le dichiarazioni criminali di tanti rabbini israeliani che inneggiano alla cancellazione della popolazione palestinese, d’altra parte anche la questione palestinese non può essere ridotta a ‘problema’ tra ebrei e musulmani, avendo delle chiare connotazioni suprematiste e di classe.

Belfast: murale dedicato alle vittime dei proiettili di gomma e di plastica

La gestione del conflitto interno
Oltre alle armi da fuoco utilizzate dai militari e dalla polizia britannica nella sanguinosa repressione del conflitto sociale – di cui il massacro di Ballymurphy (Belfast, 1971) e la Bloody Sunday (Derry, 1972) non sono state che punte dell’iceberg – come non ricordare l’uso del gas CS o l’invenzione (tutta britannica!) dei letali proiettili di plastica e dei proiettili di gomma per la repressione dei Troubles, che ritroveremo prontamente utilizzati anche da Israele nella repressione della popolazione palestinese?
E come non ricordare, oltre alle continue irruzioni militari nelle case, il ricorrente uso della detenzione senza processo di cui sono vittime tanti/e palestinesi come lo sono stati tanti/e irlandesi? O le esecuzioni sommarie di combattenti nordirlandesi e di combattenti palestinesi?

Lato di un muro di separazione a Belfast; si notino le grandi telecamere, che dominano l’intera città, posizionate sul traliccio all’interno

I muri
Nelle 6 contee dell’Irlanda del Nord ancora sotto dominio britannico, oltre 30 km di muri (di cui 15 km nella sola Belfast) dividono fra loro i quartieri repubblicani da quelli lealisti.
Eretti inizialmente come barricate dagli abitanti dei quartieri repubblicani per difendersi dai ricorrenti attacchi lealisti, i muri arrivarono presto a costituire dei veri e propri confini interni alle città, delle roccheforti a difesa dei quartieri lealisti con tanto di torrette di guardia, come è ben visibile in questa immagine, scattata nel 2019 (i cancelli, per decenni veri e propri checkpoint militari, dagli accordi di pace del 1998 sono tenuti aperti durante il giorno).

Altro lato dello stesso muro, con torretta di guardia e cancello di accesso al quartiere lealista

Potrei continuare con gli esempi, ma credo che queste rapide suggestioni possano chiaramente mostrare le responsabilità britanniche nella repressione e nel genocidio della popolazione palestinese da parte di Israele.
Le responsabilità riguardano tutti i Paesi occidentali, ma nel caso britannico sono ancora maggiori, come dimostra anche la comoda posizione astensionista del Regno Unito al Consiglio di sicurezza dell’Onu nelle votazioni sulla necessità di un immediato (e definitivo!) cessate il fuoco. Se, infatti la rappresentante statunitense si esprime con voto contrario, la ‘cugina’ britannica nasconde furbescamente dietro l’astensione la ferocia di di un impero che, se pure apparentemente finito con la decolonizzazione, ha ancora e sempre le mani grondanti di sangue.
E di questo non dovremmo mai dimenticarci, come non se ne dimentica l’Irlanda nelle cui strade da decenni sventolano bandiere palestinesi.

Belfast: murale (2019)

Rompere il monopolio della memoria nell’Occidente guerrafondaio

Non intendo dilungarmi sulla miseria di chi da decenni vorrebbe ingabbiarci in una memoria acritica e a senso unico.

Storia e memoria vanno di pari passo, soprattutto quando la storia non è quella scritta dai vincitori e quando è fatta anche da cronache quotidiane di massacri trasmessi in tempo reale.

Vorrei fornire solo alcuni dati attuali, che parlano da sé.
Ma, prima di tutto, una domanda, per dare corpo a quei dati: il “mai più” che si va ripetendo per legge e fino alla nausea da anni, significa “mai più per nessuno” o “mai più solo per alcuni”?

Primo dato: le comunità ebraiche in Italia chiedono che domani, 27 gennaio, siano vietati i cortei per la Palestina, caso mai qualcuno si azzardasse a strappare loro il monopolio del genocidio e della relativa memoria. Eppure la modernità si apre con un immane genocidio: quello dei popoli nativi delle Americhe, di cui ne sono state sterminate decine di milioni in pochi decenni. Un genocidio coloniale, al quale ne sarebbero seguiti altri e poi altri ancora, fino a quello attuale in Palestina. Di quanti di questi genocidi abbiamo sentito parlare? Quanti ne vengono ricordati nelle scuole? (domanda, ovviamente, retorica…)

Secondo dato: nel novembre 2005, l’Assemblea Generale dell’Onu ha adottato per consenso la Risoluzione 60/7 condannando “senza riserve” tutte le manifestazioni (su base etnica o religiosa) di intolleranza, incitamento, molestia o violenza contro persone o comunità e, contestualmente, ha chiesto al Segretario Generale di istituire un programma di sensibilizzazione sull’Olocausto, nonché misure volte a mobilitare la società civile per ricordare l’Olocausto e prevenire futuri atti di genocidio. La genesi della “giornata della memoria” a livello internazionale (e istituzionale) tiene dunque conto della prevenzione: guarda al futuro e non solo al passato.

Terzo dato: che piaccia o meno ai sionisti e ai loro complici, oggi il tribunale internazionale dell’Aja ha confermato che esistono “prove sufficienti” per valutare l’accusa di genocidio nei confronti di Tel Aviv. Il ricorso, presentato dal Sudafrica a fine dicembre, accusava infatti Israele di violare la Convenzione sul Genocidio nella Striscia di Gaza.

Quarto dato: malgrado si stia assistendo ad un genocidio in tempo reale, proprio i paesi che nei secoli scorsi sono stati responsabili di massacri e genocidi coloniali oggi più che mai perseguitano chi osa schierarsi contro il genocidio del popolo palestinese. Il caso dell’educatore algerino di Roma perquisito senza nemmeno un mandato e sospeso dal lavoro è esemplare, soprattutto se pensiamo che l’Italia è stato il primo paese che ha imposto per legge un regime di apartheid nelle proprie colonie, un decennio prima che venisse imposto dalla minoranza bianca in Sudafrica.

Sarà un caso che non ci sia una giornata della memoria che ricordi i crimini compiuti nelle colonie italiane del Corno d’Africa? E che proprio quelle colonie, come ho ampiamente documentato in Difendere la “razza”, siano state il laboratorio delle leggi razziali che sarebbero state emanate in Italia successivamente, nel ’38?

Se davvero di memoria vogliamo parlare, parliamo anche dell’uso politico che della memoria – così come della storia – viene fatto.
Se davvero di memoria vogliamo parlare, chiediamoci perché le comunità ebraiche si preoccupino più dei cortei di solidarietà con la Palestina che della riorganizzazione dei gruppi e dei partiti neonazisti in tutto l’Occidente (talvolta perfino trattati come eroi, come nel caso degli Azov); chiediamoci perché da un anno una militante antifascista italiana si trovi rinchiusa nelle fetide galere ungheresi e nessuno ne abbia parlato per mesi e mesi.

Se davvero di memoria vogliamo parlare rompiamone, prima di tutto, il monopolio!

Natività?

Alcuni giorni fa una donna palestinese prossima al parto stava cercando di raggiungere a piedi un ospedale, nel pieno delle doglie, sventolando una bandiera bianca. Un cecchino israeliano l’ha ammazzata per strada. Non è la prima e, purtroppo, non sarà l’ultima.

Quest’anno a Betlemme hanno deciso di non festeggiare il natale in solidarietà alla popolazione della striscia di Gaza e una chiesa luterana ha allestito un presepe col neonato Gesù sopra un cumulo di macerie.

Ma diciamocelo chiaramente: se Gesù Cristo nascesse domani non potrebbe nemmeno sperare di vivere 33 anni ma, se va bene, 33 giorni – o forse soltanto 33 minuti…

Evito di dilungarmi sull’ipocrita risalto dato dal manistream nostrano alla nascita di una bimba palestinese sulla nave militare Vulcano: l’Italia, come tutti i paesi servi degli USA, è complice del genocidio a Gaza e in Cisgiordania e non può sperare di nascondere, dietro il volto della neonata Ilin, le mani da cui gronda il sangue di oltre 20mila palestinesi.

Oltre la banalità del male: la banalità dell’orrore

Sull’Indipendente di ieri c’era un articolo relativo all’espianto, da parte di Israele, di organi e di pelle dai cadaveri di palestinesi.

Questa pratica, che non è affatto nuova in Israele, spiegherebbe come mai l’occupante sionista abbia sequestrato i cadaveri dall’ospedale al Shifa e, aspetto che l’articolo non contempla, confermerebbe – oltre all’ormai più che acclarato sadismo suprematista sionista – anche una delle ragioni per cui Israele non restituisce alle famiglie i cadaveri dei prigionieri palestinesi deceduti.

Qualche anima ingenua ancora attaccata al biberon del mainstream mi dirà “Ma queste sono accuse antisemite! Non vorrai dire che Israele…???”. Eppure lo dicono, con estrema naturalezza, i sionisti stessi, come dimostra questo video:

E, a proposito di banalità del male, che dire della senatrice sopravvissuta al lager sullo stesso palco del fascistissimo La Russa alla Scala, ieri, mentre in Palestina i conteggi dei morti e dei feriti (tra cui molti/e mutilati) superavano, rispettivamente, i 17mila e i 46mila (checché ne dicano i pennivendoli filo-sionisti italiani che cercano di ridimensionare le cifre da genocidio)?

A proposito di pennivendoli, quelli sbandierati, ieri, mezzi nudi di fronte al mondo e spacciati per militanti della resistenza palestinese che si sono arresi sono in realtà civili – inclusi giornalisti degni di questo nome, non come quelli nostrani – rastrellati nel nord di Gaza.

Ammazzano soprattutto donne e bambini/e e rastrellano gli uomini adulti… vi dice niente tutto ciò?

Che le macerie di Gaza e Cisgiordania seppelliscano definitivamente tutti costoro e la loro disumanità sotto una lapidea coltre di vergogna!

Finalmente libera?

Non appena questa mattina ho letto, sul canale Palestina Hoy, la notizia – attesa da giorni – della scarcerazione di Israa Jaabis, l’ho inoltrata ad alcune compagne commentandola con Finalmente libera!.

Ma, col passare delle ore, mi sto chiedendo se Israa si possa davvero considerare libera: è tornata nell’apartheid di una città da decenni spaccata in due, occupata e militarizzata, vi è tornata con un corpo devastato anche grazie alla sadica e sistematica negligenza della canaglia sionista che, dopo averla incarcerata, ha sempre respinto ogni sua richiesta di cure.

Su Infopal potete leggere la vicenda del suo arresto. Una campagna e vari appelli sono stati fatti negli anni scorsi per la sua scarcerazione, ma tutto è, ovviamente, caduto nel vuoto.

Ieri sera i militari occupanti sono andati a casa della sua famiglia minacciando che Israa non sarebbe stata liberata se lì fosse rimasta la stampa ad attenderla (quanto avrebbero voluto che nell’incendio della sua auto le si fosse bruciata anche la lingua!!!), come se non bastasse il fatto che il governo isaeliano sta cercando di imporre il divieto di festeggiare chi viene rilasciato/a dal carcere, con la minaccia di riportarli/e in carcere.

E allora torno a chiedermi – e a chiedervi – Israa è davvero Finalmente libera? E, come lei, tutte le meravigliose e indomite donne palestinesi i cui volti gioiosi si riaffacciano in questi giorni, dopo anni di reclusione e torture nelle carceri israeliane?

«Salviamo la nostra umanità dalle macerie di Gaza»

Il titolo di questo post è la chiusa dell’intervento toccante che Samah Jabr ha dovuto fare in videoconferenza, non potendo partire da Gerusalemme per venire in Italia. L’intero intervento, registrato e trascritto, lo trovate nel sito del collettivo Artaud, con altri materiali video sul lavoro di Samah.

Derry è con la resistenza palestinese!

Segnalo anche altri materiali di approfondimento, in italiano: il primo riguarda le ragioni economiche che stanno alla radice di questa ennesima mattanza sionista nel nuovo assetto geopolitico che va definendosi; il secondo si focalizza sulla Palestina come laboratorio su cui Israele testa nuovi armamenti e tecnologie di controllo da esportare – al riguardo consiglio anche la lettura dell’opuscolo Il sistema Israele e le sue tracce nel mondo (2011).

Per info sulla campagna di biocottaggio sia dei prodotti israeliani che dei marchi complici delle politiche sioniste di apartheid e genocidio (Puma, HP, AXA, Carrefour, MacDonald’s, ecc ecc ecc): BDS Italia.

Agli ignavi che ancora seguono i media mainstream consiglio la lettura della notizia sull’elicottero israeliano che ha sparato sui ravers in fuga il 7 ottobre scorso – notizia pubblicata su Haaretz che, se pure ripresa, da adnkronos è praticamente passata in sordina.

A proposito: anche l’ignavia è complicità…

Con la Palestina nel cuore!

La Palestina è una donna col volto di Anaam…

Anaam, 90 anni. Spossessata dalla sua casa e sfollata dal suo villaggio nel 1948. All’età di quindici anni, durante la creazione dello Stato di Israele. La sua infanzia è sparpagliata in città lontane come ricordi sbiaditi. Ha conservato la chiave, sperando di tornare a casa sua un giorno. Non l’ha mai fatto.

Con queste poche righe in rete qualcuno ha commentato la seconda Nakba di Anaan (e della Palestina!), effetto del colonialismo sionista e della sua atroce pulizia etnica in atto da più di settant’anni.

Pochi anni prima di morire, Edward Said scriveva con lucidità in un articolo:

[…] Quel che avvenne nel 1948 è storia vera, una concretissima conquista, una reale espropriazione di un intero popolo. Fino a che tutto ciò non verrà riconosciuto non ci potrà essere pace, anche se le attuali leadership arabe hanno deciso di dimenticare il passato. E quando tutto ciò che è stato cancellato tornerà sulla scena imporrà un bilancio che non possiamo oggi immaginare […].

L’ultima parte di cielo, l’ultima goccia di acqua…

Noi, palestinesi, insegniamo la vita dopo che loro hanno occupato l’ultima parte di cielo…
Vi invito ad ascoltare le potenti parole di Rafeef Ziadah in questo video…

…e a seguire Al Jazeera per ascoltare altre voci e testimonianze che l’italico mainstream mai e poi mai trasmetterà.
Se non conoscete l’inglese non c’è problema: le immagini parlano – anzi, urlano! – da sole.

Vi invito anche a leggere l’opuscolo Meraviglia delle meraviglie, per capire come Israele – “focolare nazionale”, secondo Balfour – fiorisca col sangue palestinese.

In ultimo, vi invito a segnare sull’agenda gli appuntamenti con Samah Jabr.

Con la Palestina nel cuore!

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Aggiornamento del 10 novembre:

Strade colore del sangue – Due voci da Gaza

Ghassan Kanafani

Ghassan Kanafani era un militante del FPLP, fu ucciso a Beirut nel 1972 in un attentato del Mossad in cui perse la vita anche la nipote sedicenne.

Voglio oggi ricordare alcuni stralci della sua Lettera da Gaza del 1956 (che si può leggere integralmente qui).

[…] Questa Gaza, più stretta del respiro di uno che sogna un incubo terribile, con l’odore particolare dei suoi stretti vicoli, l’odore della povertà e della sconfitta, e le case con i protuberanti balconi… questa Gaza!
Ma quali sono gli oscuri motivi che attirano un uomo verso la sua famiglia, la sua casa, le sue memorie, come una sorgente attira un piccolo gregge di capre montanare? Non lo so. Tutto quello che so è che andai da mia madre, a casa nostra, quella mattina. Quando arrivai, incontrai la moglie del mio defunto fratello che mi chiese, piangendo, di far visita a Nadia quella sera, la figlia ferita ricoverata in ospedale, secondo il suo desiderio. Conosci Nadia, la bella figlia tredicenne di mio fratello?
Quella sera comprai un po’ di mele e mi preparai a fare visita a Nadia in ospedale. Sapevo che c’era qualcosa che mia madre e mia cognata mi stavano nascondendo, qualcosa che le loro labbra non potevano pronunciare, qualcosa di strano che non potevo cogliere. Volevo bene a Nadia con naturalezza, la stessa naturalezza che mi faceva voler bene a tutta quella generazione che era stata allevata sulle sconfitte e sulla rimozione, pensando che una vita felice fosse un genere di devianza sociale.
Cosa successe al momento? Non lo so. Entrai con calma nella stanza bianca. I bambini malati avevano qualcosa della santità; la malattia del bambino sembrava il risultato di ferite dolorose, crudeli. Nadia era sdraiata sul letto, con la schiena appoggiata su un grande cuscino, sul quale si spargevano i suoi capelli come una folta chioma. C’era un profondo silenzio che veniva dai suoi occhi spalancati, e una lacrima brillava nell’intensità delle sue pupille nere. Il suo viso era imperturbabile ma eloquente, come può essere la faccia di un profeta torturato. Nadia era ancora una bambina, ma sembrava più che una bambina, molto di più, e più grande di una bambina, molto più grande.
[…]
“Nadia! Ti ho portato dei regali dal Kuwait, diversi regali. Aspetto che lasci il letto, completamente guarita, verrai a casa e te li darò. Ti ho comprato i pantaloni rossi che mi hai chiesto nella lettera. Sì, li ho comprati.”
Era una bugia, generata dalla tensione della situazione, ma come la pronunciai sentii che stavo dicendo per la prima volta la verità. Nadia tremò come se le avessero fatto l’elettro shock, e abbassò la testa in un terribile silenzio. Sentivo le sue lacrime bagnare il dorso della mia mano.
“Dimmi qualcosa, Nadia! Non vuoi i pantaloni rossi?” Sollevò lo sguardo verso di me e fece come parlare, ma poi si fermò, strinse i denti e sentii ancora la sua voce, come se venisse da lontano.
“Zio!”
Tese le mani, sollevò il bianco copriletto con le sue dita e indicò la sua gamba, amputata dalla coscia.
Amico mio… Non potrò mai dimenticare la gamba di Nadia, amputata dalla coscia. No! Non dimenticherò mai il dolore che modellò il suo viso e si fuse per sempre nei suoi tratti. Quel giorno uscii dall’ospedale di Gaza con la mano che stringeva, in silenzioso scherno, le monete che avevo portato per Nadia. Il sole cocente riempiva le strade con il colore del sangue. […]

Shahd Abusalama

Molti decenni più tardi, in una intervista del 2014, la militante e artista palestinese Shahd Abusalama afferma:

Non credo più nella pace. È una parola che Israele ha usato così tante volte e di cui ha abusato così a lungo, al punto che ha perso ogni residuo di significato e attendibilità. Parlano di pace, ma lanciano bombe sulla Striscia; parlano di pace, ma continuano a colonizzare le nostre terre; parlano di pace, ma uccidono i nostri ragazzi. Non è questa la “pace” che vogliamo, non vogliamo la loro “pace”. Il mio popolo ama la vita, che sia chiaro. Ma la giustizia viene prima della pace. Non accetteremo mai il processo di normalizzazione. Non si tratta di due schieramenti uguali: noi siamo gli occupati, loro gli occupatori. E ogni mezzo utile a raggiungere la giustizia è necessario alla causa.
[…]
Ho vissuto a Gaza per tutta la mia vita, isolata dai palestinesi della Diaspora o di Cisgiordania. Come dicevo prima, Gaza è una prigione a cielo aperto, un ghetto a tutti gli effetti. Certo, Gaza ha delle caratteristiche uniche, ma non voglio concentrarmi su questo. Non ora. Per noi è molto difficile superare i confini e quando ci riusciamo dobbiamo affrontare i checkpoint, l’occupazione ha reso la nostra vita quasi impossibile. Voglio sottolineare una cosa: la mia identità non è soltanto gazawi, ma palestinese. Io sono palestinese. Non sono semplicemente una residente della Striscia, io vivo in Palestina. E questa identità, così messa a dura prova dall’occupazione, viene rafforzata proprio da ciò che dovrebbe distruggerla. Noi di Gaza e “loro” in Cisgiordania siamo un unico popolo. Così come sono parte integrante del popolo palestinese i discendenti dei rifugiati.
[…]
La mia Gaza è il campo in cui Israele pratica punizioni collettive e in cui deporta chi vuole, come vuole. I media occidentali spesso dicono che, non essendoci più un solo soldato israeliano sulla Striscia, non c’è neanche un’occupazione. Niente di più sbagliato, niente di più “normalizzante”. I loro soldati – posizionati sulle torrette al confine – sparano ai nostri contadini, le loro navi sparano ai nostri pescatori, i loro aerei volano sulle nostre teste minacciando continuamente di bombardare (e spesso lo fanno).
[…]

Con la Palestina nel cuore!