Dall’Irlanda alla Palestina

Belfast, murale in solidarietà ai prigionieri politici palestinesi e irlandesi

In tutte le iniziative sulla Palestina a cui ho partecipato negli ultimi mesi – che si trattasse di cortei, presentazioni di libri o altro – non ho mai sentito nominare nemmeno lontanamente un aspetto che negli anni ‘70 e ’80 era chiarissimo a chi si occupava sia di Palestina che di Irlanda del Nord: la profonda impronta britannica che caratterizza il dominio e l’oppressione sionista.

Non mi riferisco solo al mandato britannico e alla “dichiarazione Balfour”, che ormai dovrebbero essere arcinoti anche ai sassi e sui quali, quindi, non sto a soffermarmi. Quello che, invece, mi sembra sfuggire è il legame tra la storia e le pratiche del dominio britannico in Irlanda e il dominio sionista nei territori palestinesi.

Non posso scrivere qui un trattato al riguardo, né indagare in profondità le complesse relazioni tra i servizi segreti britannici – in particolare MI5 – e il Mossad. Cercherò, piuttosto, di riportare le linee essenziali della mia riflessione in fieri, rimandando per gli approfondimenti alla lettura dei testi citati e all’infinito materiale che si può trovare in rete.

Mappa dei Plantations

Colonialismo d’insediamento
Ancora oggi in Irlanda – in particolare nelle 6 contee ancora sotto dominio britannico – canti e murales sono tra i principali veicoli della memoria storica. Dal bellissimo – se pure consunto dal tempo – murale di Belfast Otto secoli di occupazione, otto secoli di resistenza a You’ll Never Beat the Irish – cantata a squarciagola in ogni occasione – note e colori raccontano la storia di una popolazione indomita e la sua plurisecolare resistenza all’occupazione britannica.

Mappa storica dei Plantations

Se le prime tracce del dominio militare possono essere individuate nel 12° secolo, è con il Plantation of Ireland che comincia, nella seconda metà del ‘500, il vero e proprio colonialismo britannico di insediamento che vide confiscati ai capitribù irlandesi i loro territori per consegnarli al controllo e al possesso dei British tenants di religione protestante, anche allo scopo di prevenire e reprimere le ribellioni delle popolazioni locali – eclatante il caso del Plantation dell’Ulster e della costruzione, tra il 1613 e il 1618 della città fortificata di Derry.
Lo sviluppo dei Plantations ricorda senza dubbio, se pure con le dovute differenze, la strategia della sottrazione di territorio ai palestinesi cominciata coi kibbutz.

Genocidio
Per accelerare il genocidio della popolazione palestinese, ai continui bombardamenti che hanno raso al suolo la Striscia di Gaza decimandone gli abitanti e ai cecchini che sparano sui civili inermi, Israele ha aggiunto l’arma della fame. Esattamente come fece il dominio britannico a metà dell’800 in Irlanda. Le narrazioni mainstream raccontano ancora oggi di una grande carestia dovuta ad una forma aggressiva di peronospora che devastò le piantagioni di patate in Irlanda, ma ricerche storiche più recenti parlano di un vero e proprio “Olocausto irlandese” pianificato dalla Corona britannica per sterminare quella popolazione ribelle, negandole il cibo per esacerbare gli effetti letali della carestia dovuta alla “potato blight”.

Terrorizzare la popolazione
Nell’agosto 1969, al ritorno dalla manifestazione che annualmente ricorda il ruolo degli Apprentice Boys nella difesa di Derry – o, meglio, in questo caso Londonderry – del 1688, gli sfegatati lealisti, infuriati per i gloriosi tre giorni di battaglia del Bogside (Derry), diedero fuoco a tutte le case del quartiere proletario di Bombay Street a Belfast, supportati dall’esercito britannico, come è testimoniato dall’allora adolescente Michael McCann nel suo Burnt Out-How ‘the Troubles’ Began. Fatti che ricordano molto da vicino la quotidiana violenza dei coloni sionisti nei Territori palestinesi occupati da Israele.

Mappa in dotazione all’esercito di occupazione britannico all’epoca dei Troubles; in verde i quartieri repubblicani, in arancione quelli lealisti (Irish Republican History Museum, Belfast)

La cronaca quasi quotidiana di quegli anni è riportata con grande precisione nel testo Ireland, England’s Vietnam (1967) – pubblicato da Lotta Continua in Italia col titolo Irlanda, un Vietnam in Europa (1969) – testo di cui consiglio caldamente la lettura soprattutto a chi ancora pensa che la questione irlandese – come anche quella palestinese – si possa ridurre a questione religiosa e non, invece, di classe.
Se, infatti, è vero che il terrorismo estremista del reverendo protestante Ian Paisley, fondatore del DUP (gruppo paramilitare lealista), ricorda molto da vicino le dichiarazioni criminali di tanti rabbini israeliani che inneggiano alla cancellazione della popolazione palestinese, d’altra parte anche la questione palestinese non può essere ridotta a ‘problema’ tra ebrei e musulmani, avendo delle chiare connotazioni suprematiste e di classe.

Belfast: murale dedicato alle vittime dei proiettili di gomma e di plastica

La gestione del conflitto interno
Oltre alle armi da fuoco utilizzate dai militari e dalla polizia britannica nella sanguinosa repressione del conflitto sociale – di cui il massacro di Ballymurphy (Belfast, 1971) e la Bloody Sunday (Derry, 1972) non sono state che punte dell’iceberg – come non ricordare l’uso del gas CS o l’invenzione (tutta britannica!) dei letali proiettili di plastica e dei proiettili di gomma per la repressione dei Troubles, che ritroveremo prontamente utilizzati anche da Israele nella repressione della popolazione palestinese?
E come non ricordare, oltre alle continue irruzioni militari nelle case, il ricorrente uso della detenzione senza processo di cui sono vittime tanti/e palestinesi come lo sono stati tanti/e irlandesi? O le esecuzioni sommarie di combattenti nordirlandesi e di combattenti palestinesi?

Lato di un muro di separazione a Belfast; si notino le grandi telecamere, che dominano l’intera città, posizionate sul traliccio all’interno

I muri
Nelle 6 contee dell’Irlanda del Nord ancora sotto dominio britannico, oltre 30 km di muri (di cui 15 km nella sola Belfast) dividono fra loro i quartieri repubblicani da quelli lealisti.
Eretti inizialmente come barricate dagli abitanti dei quartieri repubblicani per difendersi dai ricorrenti attacchi lealisti, i muri arrivarono presto a costituire dei veri e propri confini interni alle città, delle roccheforti a difesa dei quartieri lealisti con tanto di torrette di guardia, come è ben visibile in questa immagine, scattata nel 2019 (i cancelli, per decenni veri e propri checkpoint militari, dagli accordi di pace del 1998 sono tenuti aperti durante il giorno).

Altro lato dello stesso muro, con torretta di guardia e cancello di accesso al quartiere lealista

Potrei continuare con gli esempi, ma credo che queste rapide suggestioni possano chiaramente mostrare le responsabilità britanniche nella repressione e nel genocidio della popolazione palestinese da parte di Israele.
Le responsabilità riguardano tutti i Paesi occidentali, ma nel caso britannico sono ancora maggiori, come dimostra anche la comoda posizione astensionista del Regno Unito al Consiglio di sicurezza dell’Onu nelle votazioni sulla necessità di un immediato (e definitivo!) cessate il fuoco. Se, infatti la rappresentante statunitense si esprime con voto contrario, la ‘cugina’ britannica nasconde furbescamente dietro l’astensione la ferocia di di un impero che, se pure apparentemente finito con la decolonizzazione, ha ancora e sempre le mani grondanti di sangue.
E di questo non dovremmo mai dimenticarci, come non se ne dimentica l’Irlanda nelle cui strade da decenni sventolano bandiere palestinesi.

Belfast: murale (2019)

Rompere il monopolio della memoria nell’Occidente guerrafondaio

Non intendo dilungarmi sulla miseria di chi da decenni vorrebbe ingabbiarci in una memoria acritica e a senso unico.

Storia e memoria vanno di pari passo, soprattutto quando la storia non è quella scritta dai vincitori e quando è fatta anche da cronache quotidiane di massacri trasmessi in tempo reale.

Vorrei fornire solo alcuni dati attuali, che parlano da sé.
Ma, prima di tutto, una domanda, per dare corpo a quei dati: il “mai più” che si va ripetendo per legge e fino alla nausea da anni, significa “mai più per nessuno” o “mai più solo per alcuni”?

Primo dato: le comunità ebraiche in Italia chiedono che domani, 27 gennaio, siano vietati i cortei per la Palestina, caso mai qualcuno si azzardasse a strappare loro il monopolio del genocidio e della relativa memoria. Eppure la modernità si apre con un immane genocidio: quello dei popoli nativi delle Americhe, di cui ne sono state sterminate decine di milioni in pochi decenni. Un genocidio coloniale, al quale ne sarebbero seguiti altri e poi altri ancora, fino a quello attuale in Palestina. Di quanti di questi genocidi abbiamo sentito parlare? Quanti ne vengono ricordati nelle scuole? (domanda, ovviamente, retorica…)

Secondo dato: nel novembre 2005, l’Assemblea Generale dell’Onu ha adottato per consenso la Risoluzione 60/7 condannando “senza riserve” tutte le manifestazioni (su base etnica o religiosa) di intolleranza, incitamento, molestia o violenza contro persone o comunità e, contestualmente, ha chiesto al Segretario Generale di istituire un programma di sensibilizzazione sull’Olocausto, nonché misure volte a mobilitare la società civile per ricordare l’Olocausto e prevenire futuri atti di genocidio. La genesi della “giornata della memoria” a livello internazionale (e istituzionale) tiene dunque conto della prevenzione: guarda al futuro e non solo al passato.

Terzo dato: che piaccia o meno ai sionisti e ai loro complici, oggi il tribunale internazionale dell’Aja ha confermato che esistono “prove sufficienti” per valutare l’accusa di genocidio nei confronti di Tel Aviv. Il ricorso, presentato dal Sudafrica a fine dicembre, accusava infatti Israele di violare la Convenzione sul Genocidio nella Striscia di Gaza.

Quarto dato: malgrado si stia assistendo ad un genocidio in tempo reale, proprio i paesi che nei secoli scorsi sono stati responsabili di massacri e genocidi coloniali oggi più che mai perseguitano chi osa schierarsi contro il genocidio del popolo palestinese. Il caso dell’educatore algerino di Roma perquisito senza nemmeno un mandato e sospeso dal lavoro è esemplare, soprattutto se pensiamo che l’Italia è stato il primo paese che ha imposto per legge un regime di apartheid nelle proprie colonie, un decennio prima che venisse imposto dalla minoranza bianca in Sudafrica.

Sarà un caso che non ci sia una giornata della memoria che ricordi i crimini compiuti nelle colonie italiane del Corno d’Africa? E che proprio quelle colonie, come ho ampiamente documentato in Difendere la “razza”, siano state il laboratorio delle leggi razziali che sarebbero state emanate in Italia successivamente, nel ’38?

Se davvero di memoria vogliamo parlare, parliamo anche dell’uso politico che della memoria – così come della storia – viene fatto.
Se davvero di memoria vogliamo parlare, chiediamoci perché le comunità ebraiche si preoccupino più dei cortei di solidarietà con la Palestina che della riorganizzazione dei gruppi e dei partiti neonazisti in tutto l’Occidente (talvolta perfino trattati come eroi, come nel caso degli Azov); chiediamoci perché da un anno una militante antifascista italiana si trovi rinchiusa nelle fetide galere ungheresi e nessuno ne abbia parlato per mesi e mesi.

Se davvero di memoria vogliamo parlare rompiamone, prima di tutto, il monopolio!

Anna, che parlava con gli alberi…

Il 27 dicembre Anna Gaudiano, amica e compagna carissima, ci ha lasciate all’improvviso.

In giugno era venuta a darmi una mano – sapiente e delicata – con le potature. Voglio ricordarla così.

La scorsa estate mentre lavoravo nell’orto sentivo la sua voce.
– Anna, con chi stai parlando?
– Con gli alberi.
– E cosa gli dici di bello?
– Mi scuso perché gli sto potando dei rami; gli spiego che così cresceranno meglio, con più foglie e più castagne.

Questa era Anna: una lesbica forte come una roccia e col cuore gentile, libera e autodeterminata come una gatta randagia.
Eternamente irrequieta, era nemica giurata di questo mondo patriarcale e delle sue guerre.
Proletaria e fiera di esserlo, Anna odiava visceralmente le ingiustizie.
Compagna schietta e sincera, non amava i vezzi né i manierismi: aveva, come poche, il dono dell’immediatezza, senza calcoli né tornaconti.
Andava dritta al cuore di ogni questione, come una freccia scagliata dall’arco di un’amazzone.

Come una gatta randagia se n’è andata, in solitudine.

Che le dee ti siano sorelle e compagne in questo ultimo viaggio, Rote Anna!

Martedì 2 gennaio alle 9.30 ci troveremo al Pantheon del cimitero della Certosa, a Bologna, per il commiato.

Natività?

Alcuni giorni fa una donna palestinese prossima al parto stava cercando di raggiungere a piedi un ospedale, nel pieno delle doglie, sventolando una bandiera bianca. Un cecchino israeliano l’ha ammazzata per strada. Non è la prima e, purtroppo, non sarà l’ultima.

Quest’anno a Betlemme hanno deciso di non festeggiare il natale in solidarietà alla popolazione della striscia di Gaza e una chiesa luterana ha allestito un presepe col neonato Gesù sopra un cumulo di macerie.

Ma diciamocelo chiaramente: se Gesù Cristo nascesse domani non potrebbe nemmeno sperare di vivere 33 anni ma, se va bene, 33 giorni – o forse soltanto 33 minuti…

Evito di dilungarmi sull’ipocrita risalto dato dal manistream nostrano alla nascita di una bimba palestinese sulla nave militare Vulcano: l’Italia, come tutti i paesi servi degli USA, è complice del genocidio a Gaza e in Cisgiordania e non può sperare di nascondere, dietro il volto della neonata Ilin, le mani da cui gronda il sangue di oltre 20mila palestinesi.

Kaha Aden: la casa costruita coi racconti

Questa mattina la morte ci ha portato via Kaha Mohamed Aden – “luce del mattino”, meravigliosa amica e cantastorie, donna di intelligenza finissima, di sagace ironia e capace di sguardi che abbracciano molteplicità di mondi.

Come costruiremo la nostra casa senza più i suoi racconti?

A chi l’ha conosciuta e, soprattutto, a chi non l’ha conosciuta dedico un viaggio sulle ali della sua voce e delle sue parole…

un’intervista e un suo bellissimo racconto – 1982 Fuga da Casa – che mi riporta sempre a vent’anni fa quando, raggiante alla sua festa di matrimonio, ce l’ha regalato.

Per chi volesse leggere altri suoi racconti: Fra-intendimenti (ed. Nottetempo 2010), La disfavola degli elefanti (ed. Unicopli 2019).

Vola leggera, Kaha, fino al balcone dei tuoi sogni “proteso sopra l’Oceano Indiano”…

Oltre la banalità del male: la banalità dell’orrore

Sull’Indipendente di ieri c’era un articolo relativo all’espianto, da parte di Israele, di organi e di pelle dai cadaveri di palestinesi.

Questa pratica, che non è affatto nuova in Israele, spiegherebbe come mai l’occupante sionista abbia sequestrato i cadaveri dall’ospedale al Shifa e, aspetto che l’articolo non contempla, confermerebbe – oltre all’ormai più che acclarato sadismo suprematista sionista – anche una delle ragioni per cui Israele non restituisce alle famiglie i cadaveri dei prigionieri palestinesi deceduti.

Qualche anima ingenua ancora attaccata al biberon del mainstream mi dirà “Ma queste sono accuse antisemite! Non vorrai dire che Israele…???”. Eppure lo dicono, con estrema naturalezza, i sionisti stessi, come dimostra questo video:

E, a proposito di banalità del male, che dire della senatrice sopravvissuta al lager sullo stesso palco del fascistissimo La Russa alla Scala, ieri, mentre in Palestina i conteggi dei morti e dei feriti (tra cui molti/e mutilati) superavano, rispettivamente, i 17mila e i 46mila (checché ne dicano i pennivendoli filo-sionisti italiani che cercano di ridimensionare le cifre da genocidio)?

A proposito di pennivendoli, quelli sbandierati, ieri, mezzi nudi di fronte al mondo e spacciati per militanti della resistenza palestinese che si sono arresi sono in realtà civili – inclusi giornalisti degni di questo nome, non come quelli nostrani – rastrellati nel nord di Gaza.

Ammazzano soprattutto donne e bambini/e e rastrellano gli uomini adulti… vi dice niente tutto ciò?

Che le macerie di Gaza e Cisgiordania seppelliscano definitivamente tutti costoro e la loro disumanità sotto una lapidea coltre di vergogna!

Finalmente libera?

Non appena questa mattina ho letto, sul canale Palestina Hoy, la notizia – attesa da giorni – della scarcerazione di Israa Jaabis, l’ho inoltrata ad alcune compagne commentandola con Finalmente libera!.

Ma, col passare delle ore, mi sto chiedendo se Israa si possa davvero considerare libera: è tornata nell’apartheid di una città da decenni spaccata in due, occupata e militarizzata, vi è tornata con un corpo devastato anche grazie alla sadica e sistematica negligenza della canaglia sionista che, dopo averla incarcerata, ha sempre respinto ogni sua richiesta di cure.

Su Infopal potete leggere la vicenda del suo arresto. Una campagna e vari appelli sono stati fatti negli anni scorsi per la sua scarcerazione, ma tutto è, ovviamente, caduto nel vuoto.

Ieri sera i militari occupanti sono andati a casa della sua famiglia minacciando che Israa non sarebbe stata liberata se lì fosse rimasta la stampa ad attenderla (quanto avrebbero voluto che nell’incendio della sua auto le si fosse bruciata anche la lingua!!!), come se non bastasse il fatto che il governo isaeliano sta cercando di imporre il divieto di festeggiare chi viene rilasciato/a dal carcere, con la minaccia di riportarli/e in carcere.

E allora torno a chiedermi – e a chiedervi – Israa è davvero Finalmente libera? E, come lei, tutte le meravigliose e indomite donne palestinesi i cui volti gioiosi si riaffacciano in questi giorni, dopo anni di reclusione e torture nelle carceri israeliane?

«Salviamo la nostra umanità dalle macerie di Gaza»

Il titolo di questo post è la chiusa dell’intervento toccante che Samah Jabr ha dovuto fare in videoconferenza, non potendo partire da Gerusalemme per venire in Italia. L’intero intervento, registrato e trascritto, lo trovate nel sito del collettivo Artaud, con altri materiali video sul lavoro di Samah.

Derry è con la resistenza palestinese!

Segnalo anche altri materiali di approfondimento, in italiano: il primo riguarda le ragioni economiche che stanno alla radice di questa ennesima mattanza sionista nel nuovo assetto geopolitico che va definendosi; il secondo si focalizza sulla Palestina come laboratorio su cui Israele testa nuovi armamenti e tecnologie di controllo da esportare – al riguardo consiglio anche la lettura dell’opuscolo Il sistema Israele e le sue tracce nel mondo (2011).

Per info sulla campagna di biocottaggio sia dei prodotti israeliani che dei marchi complici delle politiche sioniste di apartheid e genocidio (Puma, HP, AXA, Carrefour, MacDonald’s, ecc ecc ecc): BDS Italia.

Agli ignavi che ancora seguono i media mainstream consiglio la lettura della notizia sull’elicottero israeliano che ha sparato sui ravers in fuga il 7 ottobre scorso – notizia pubblicata su Haaretz che, se pure ripresa, da adnkronos è praticamente passata in sordina.

A proposito: anche l’ignavia è complicità…

Con la Palestina nel cuore!

La Palestina è una donna col volto di Anaam…

Anaam, 90 anni. Spossessata dalla sua casa e sfollata dal suo villaggio nel 1948. All’età di quindici anni, durante la creazione dello Stato di Israele. La sua infanzia è sparpagliata in città lontane come ricordi sbiaditi. Ha conservato la chiave, sperando di tornare a casa sua un giorno. Non l’ha mai fatto.

Con queste poche righe in rete qualcuno ha commentato la seconda Nakba di Anaan (e della Palestina!), effetto del colonialismo sionista e della sua atroce pulizia etnica in atto da più di settant’anni.

Pochi anni prima di morire, Edward Said scriveva con lucidità in un articolo:

[…] Quel che avvenne nel 1948 è storia vera, una concretissima conquista, una reale espropriazione di un intero popolo. Fino a che tutto ciò non verrà riconosciuto non ci potrà essere pace, anche se le attuali leadership arabe hanno deciso di dimenticare il passato. E quando tutto ciò che è stato cancellato tornerà sulla scena imporrà un bilancio che non possiamo oggi immaginare […].

L’ultima parte di cielo, l’ultima goccia di acqua…

Noi, palestinesi, insegniamo la vita dopo che loro hanno occupato l’ultima parte di cielo…
Vi invito ad ascoltare le potenti parole di Rafeef Ziadah in questo video…

…e a seguire Al Jazeera per ascoltare altre voci e testimonianze che l’italico mainstream mai e poi mai trasmetterà.
Se non conoscete l’inglese non c’è problema: le immagini parlano – anzi, urlano! – da sole.

Vi invito anche a leggere l’opuscolo Meraviglia delle meraviglie, per capire come Israele – “focolare nazionale”, secondo Balfour – fiorisca col sangue palestinese.

In ultimo, vi invito a segnare sull’agenda gli appuntamenti con Samah Jabr.

Con la Palestina nel cuore!

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Aggiornamento del 10 novembre: