Dall’Irlanda alla Palestina

Belfast, murale in solidarietà ai prigionieri politici palestinesi e irlandesi

In tutte le iniziative sulla Palestina a cui ho partecipato negli ultimi mesi – che si trattasse di cortei, presentazioni di libri o altro – non ho mai sentito nominare nemmeno lontanamente un aspetto che negli anni ‘70 e ’80 era chiarissimo a chi si occupava sia di Palestina che di Irlanda del Nord: la profonda impronta britannica che caratterizza il dominio e l’oppressione sionista.

Non mi riferisco solo al mandato britannico e alla “dichiarazione Balfour”, che ormai dovrebbero essere arcinoti anche ai sassi e sui quali, quindi, non sto a soffermarmi. Quello che, invece, mi sembra sfuggire è il legame tra la storia e le pratiche del dominio britannico in Irlanda e il dominio sionista nei territori palestinesi.

Non posso scrivere qui un trattato al riguardo, né indagare in profondità le complesse relazioni tra i servizi segreti britannici – in particolare MI5 – e il Mossad. Cercherò, piuttosto, di riportare le linee essenziali della mia riflessione in fieri, rimandando per gli approfondimenti alla lettura dei testi citati e all’infinito materiale che si può trovare in rete.

Mappa dei Plantations

Colonialismo d’insediamento
Ancora oggi in Irlanda – in particolare nelle 6 contee ancora sotto dominio britannico – canti e murales sono tra i principali veicoli della memoria storica. Dal bellissimo – se pure consunto dal tempo – murale di Belfast Otto secoli di occupazione, otto secoli di resistenza a You’ll Never Beat the Irish – cantata a squarciagola in ogni occasione – note e colori raccontano la storia di una popolazione indomita e la sua plurisecolare resistenza all’occupazione britannica.

Mappa storica dei Plantations

Se le prime tracce del dominio militare possono essere individuate nel 12° secolo, è con il Plantation of Ireland che comincia, nella seconda metà del ‘500, il vero e proprio colonialismo britannico di insediamento che vide confiscati ai capitribù irlandesi i loro territori per consegnarli al controllo e al possesso dei British tenants di religione protestante, anche allo scopo di prevenire e reprimere le ribellioni delle popolazioni locali – eclatante il caso del Plantation dell’Ulster e della costruzione, tra il 1613 e il 1618 della città fortificata di Derry.
Lo sviluppo dei Plantations ricorda senza dubbio, se pure con le dovute differenze, la strategia della sottrazione di territorio ai palestinesi cominciata coi kibbutz.

Genocidio
Per accelerare il genocidio della popolazione palestinese, ai continui bombardamenti che hanno raso al suolo la Striscia di Gaza decimandone gli abitanti e ai cecchini che sparano sui civili inermi, Israele ha aggiunto l’arma della fame. Esattamente come fece il dominio britannico a metà dell’800 in Irlanda. Le narrazioni mainstream raccontano ancora oggi di una grande carestia dovuta ad una forma aggressiva di peronospora che devastò le piantagioni di patate in Irlanda, ma ricerche storiche più recenti parlano di un vero e proprio “Olocausto irlandese” pianificato dalla Corona britannica per sterminare quella popolazione ribelle, negandole il cibo per esacerbare gli effetti letali della carestia dovuta alla “potato blight”.

Terrorizzare la popolazione
Nell’agosto 1969, al ritorno dalla manifestazione che annualmente ricorda il ruolo degli Apprentice Boys nella difesa di Derry – o, meglio, in questo caso Londonderry – del 1688, gli sfegatati lealisti, infuriati per i gloriosi tre giorni di battaglia del Bogside (Derry), diedero fuoco a tutte le case del quartiere proletario di Bombay Street a Belfast, supportati dall’esercito britannico, come è testimoniato dall’allora adolescente Michael McCann nel suo Burnt Out-How ‘the Troubles’ Began. Fatti che ricordano molto da vicino la quotidiana violenza dei coloni sionisti nei Territori palestinesi occupati da Israele.

Mappa in dotazione all’esercito di occupazione britannico all’epoca dei Troubles; in verde i quartieri repubblicani, in arancione quelli lealisti (Irish Republican History Museum, Belfast)

La cronaca quasi quotidiana di quegli anni è riportata con grande precisione nel testo Ireland, England’s Vietnam (1967) – pubblicato da Lotta Continua in Italia col titolo Irlanda, un Vietnam in Europa (1969) – testo di cui consiglio caldamente la lettura soprattutto a chi ancora pensa che la questione irlandese – come anche quella palestinese – si possa ridurre a questione religiosa e non, invece, di classe.
Se, infatti, è vero che il terrorismo estremista del reverendo protestante Ian Paisley, fondatore del DUP (gruppo paramilitare lealista), ricorda molto da vicino le dichiarazioni criminali di tanti rabbini israeliani che inneggiano alla cancellazione della popolazione palestinese, d’altra parte anche la questione palestinese non può essere ridotta a ‘problema’ tra ebrei e musulmani, avendo delle chiare connotazioni suprematiste e di classe.

Belfast: murale dedicato alle vittime dei proiettili di gomma e di plastica

La gestione del conflitto interno
Oltre alle armi da fuoco utilizzate dai militari e dalla polizia britannica nella sanguinosa repressione del conflitto sociale – di cui il massacro di Ballymurphy (Belfast, 1971) e la Bloody Sunday (Derry, 1972) non sono state che punte dell’iceberg – come non ricordare l’uso del gas CS o l’invenzione (tutta britannica!) dei letali proiettili di plastica e dei proiettili di gomma per la repressione dei Troubles, che ritroveremo prontamente utilizzati anche da Israele nella repressione della popolazione palestinese?
E come non ricordare, oltre alle continue irruzioni militari nelle case, il ricorrente uso della detenzione senza processo di cui sono vittime tanti/e palestinesi come lo sono stati tanti/e irlandesi? O le esecuzioni sommarie di combattenti nordirlandesi e di combattenti palestinesi?

Lato di un muro di separazione a Belfast; si notino le grandi telecamere, che dominano l’intera città, posizionate sul traliccio all’interno

I muri
Nelle 6 contee dell’Irlanda del Nord ancora sotto dominio britannico, oltre 30 km di muri (di cui 15 km nella sola Belfast) dividono fra loro i quartieri repubblicani da quelli lealisti.
Eretti inizialmente come barricate dagli abitanti dei quartieri repubblicani per difendersi dai ricorrenti attacchi lealisti, i muri arrivarono presto a costituire dei veri e propri confini interni alle città, delle roccheforti a difesa dei quartieri lealisti con tanto di torrette di guardia, come è ben visibile in questa immagine, scattata nel 2019 (i cancelli, per decenni veri e propri checkpoint militari, dagli accordi di pace del 1998 sono tenuti aperti durante il giorno).

Altro lato dello stesso muro, con torretta di guardia e cancello di accesso al quartiere lealista

Potrei continuare con gli esempi, ma credo che queste rapide suggestioni possano chiaramente mostrare le responsabilità britanniche nella repressione e nel genocidio della popolazione palestinese da parte di Israele.
Le responsabilità riguardano tutti i Paesi occidentali, ma nel caso britannico sono ancora maggiori, come dimostra anche la comoda posizione astensionista del Regno Unito al Consiglio di sicurezza dell’Onu nelle votazioni sulla necessità di un immediato (e definitivo!) cessate il fuoco. Se, infatti la rappresentante statunitense si esprime con voto contrario, la ‘cugina’ britannica nasconde furbescamente dietro l’astensione la ferocia di di un impero che, se pure apparentemente finito con la decolonizzazione, ha ancora e sempre le mani grondanti di sangue.
E di questo non dovremmo mai dimenticarci, come non se ne dimentica l’Irlanda nelle cui strade da decenni sventolano bandiere palestinesi.

Belfast: murale (2019)

Rompere il monopolio della memoria nell’Occidente guerrafondaio

Non intendo dilungarmi sulla miseria di chi da decenni vorrebbe ingabbiarci in una memoria acritica e a senso unico.

Storia e memoria vanno di pari passo, soprattutto quando la storia non è quella scritta dai vincitori e quando è fatta anche da cronache quotidiane di massacri trasmessi in tempo reale.

Vorrei fornire solo alcuni dati attuali, che parlano da sé.
Ma, prima di tutto, una domanda, per dare corpo a quei dati: il “mai più” che si va ripetendo per legge e fino alla nausea da anni, significa “mai più per nessuno” o “mai più solo per alcuni”?

Primo dato: le comunità ebraiche in Italia chiedono che domani, 27 gennaio, siano vietati i cortei per la Palestina, caso mai qualcuno si azzardasse a strappare loro il monopolio del genocidio e della relativa memoria. Eppure la modernità si apre con un immane genocidio: quello dei popoli nativi delle Americhe, di cui ne sono state sterminate decine di milioni in pochi decenni. Un genocidio coloniale, al quale ne sarebbero seguiti altri e poi altri ancora, fino a quello attuale in Palestina. Di quanti di questi genocidi abbiamo sentito parlare? Quanti ne vengono ricordati nelle scuole? (domanda, ovviamente, retorica…)

Secondo dato: nel novembre 2005, l’Assemblea Generale dell’Onu ha adottato per consenso la Risoluzione 60/7 condannando “senza riserve” tutte le manifestazioni (su base etnica o religiosa) di intolleranza, incitamento, molestia o violenza contro persone o comunità e, contestualmente, ha chiesto al Segretario Generale di istituire un programma di sensibilizzazione sull’Olocausto, nonché misure volte a mobilitare la società civile per ricordare l’Olocausto e prevenire futuri atti di genocidio. La genesi della “giornata della memoria” a livello internazionale (e istituzionale) tiene dunque conto della prevenzione: guarda al futuro e non solo al passato.

Terzo dato: che piaccia o meno ai sionisti e ai loro complici, oggi il tribunale internazionale dell’Aja ha confermato che esistono “prove sufficienti” per valutare l’accusa di genocidio nei confronti di Tel Aviv. Il ricorso, presentato dal Sudafrica a fine dicembre, accusava infatti Israele di violare la Convenzione sul Genocidio nella Striscia di Gaza.

Quarto dato: malgrado si stia assistendo ad un genocidio in tempo reale, proprio i paesi che nei secoli scorsi sono stati responsabili di massacri e genocidi coloniali oggi più che mai perseguitano chi osa schierarsi contro il genocidio del popolo palestinese. Il caso dell’educatore algerino di Roma perquisito senza nemmeno un mandato e sospeso dal lavoro è esemplare, soprattutto se pensiamo che l’Italia è stato il primo paese che ha imposto per legge un regime di apartheid nelle proprie colonie, un decennio prima che venisse imposto dalla minoranza bianca in Sudafrica.

Sarà un caso che non ci sia una giornata della memoria che ricordi i crimini compiuti nelle colonie italiane del Corno d’Africa? E che proprio quelle colonie, come ho ampiamente documentato in Difendere la “razza”, siano state il laboratorio delle leggi razziali che sarebbero state emanate in Italia successivamente, nel ’38?

Se davvero di memoria vogliamo parlare, parliamo anche dell’uso politico che della memoria – così come della storia – viene fatto.
Se davvero di memoria vogliamo parlare, chiediamoci perché le comunità ebraiche si preoccupino più dei cortei di solidarietà con la Palestina che della riorganizzazione dei gruppi e dei partiti neonazisti in tutto l’Occidente (talvolta perfino trattati come eroi, come nel caso degli Azov); chiediamoci perché da un anno una militante antifascista italiana si trovi rinchiusa nelle fetide galere ungheresi e nessuno ne abbia parlato per mesi e mesi.

Se davvero di memoria vogliamo parlare rompiamone, prima di tutto, il monopolio!

Oltre la banalità del male: la banalità dell’orrore

Sull’Indipendente di ieri c’era un articolo relativo all’espianto, da parte di Israele, di organi e di pelle dai cadaveri di palestinesi.

Questa pratica, che non è affatto nuova in Israele, spiegherebbe come mai l’occupante sionista abbia sequestrato i cadaveri dall’ospedale al Shifa e, aspetto che l’articolo non contempla, confermerebbe – oltre all’ormai più che acclarato sadismo suprematista sionista – anche una delle ragioni per cui Israele non restituisce alle famiglie i cadaveri dei prigionieri palestinesi deceduti.

Qualche anima ingenua ancora attaccata al biberon del mainstream mi dirà “Ma queste sono accuse antisemite! Non vorrai dire che Israele…???”. Eppure lo dicono, con estrema naturalezza, i sionisti stessi, come dimostra questo video:

E, a proposito di banalità del male, che dire della senatrice sopravvissuta al lager sullo stesso palco del fascistissimo La Russa alla Scala, ieri, mentre in Palestina i conteggi dei morti e dei feriti (tra cui molti/e mutilati) superavano, rispettivamente, i 17mila e i 46mila (checché ne dicano i pennivendoli filo-sionisti italiani che cercano di ridimensionare le cifre da genocidio)?

A proposito di pennivendoli, quelli sbandierati, ieri, mezzi nudi di fronte al mondo e spacciati per militanti della resistenza palestinese che si sono arresi sono in realtà civili – inclusi giornalisti degni di questo nome, non come quelli nostrani – rastrellati nel nord di Gaza.

Ammazzano soprattutto donne e bambini/e e rastrellano gli uomini adulti… vi dice niente tutto ciò?

Che le macerie di Gaza e Cisgiordania seppelliscano definitivamente tutti costoro e la loro disumanità sotto una lapidea coltre di vergogna!

La Palestina è una donna col volto di Anaam…

Anaam, 90 anni. Spossessata dalla sua casa e sfollata dal suo villaggio nel 1948. All’età di quindici anni, durante la creazione dello Stato di Israele. La sua infanzia è sparpagliata in città lontane come ricordi sbiaditi. Ha conservato la chiave, sperando di tornare a casa sua un giorno. Non l’ha mai fatto.

Con queste poche righe in rete qualcuno ha commentato la seconda Nakba di Anaan (e della Palestina!), effetto del colonialismo sionista e della sua atroce pulizia etnica in atto da più di settant’anni.

Pochi anni prima di morire, Edward Said scriveva con lucidità in un articolo:

[…] Quel che avvenne nel 1948 è storia vera, una concretissima conquista, una reale espropriazione di un intero popolo. Fino a che tutto ciò non verrà riconosciuto non ci potrà essere pace, anche se le attuali leadership arabe hanno deciso di dimenticare il passato. E quando tutto ciò che è stato cancellato tornerà sulla scena imporrà un bilancio che non possiamo oggi immaginare […].

L’ultima parte di cielo, l’ultima goccia di acqua…

Noi, palestinesi, insegniamo la vita dopo che loro hanno occupato l’ultima parte di cielo…
Vi invito ad ascoltare le potenti parole di Rafeef Ziadah in questo video…

…e a seguire Al Jazeera per ascoltare altre voci e testimonianze che l’italico mainstream mai e poi mai trasmetterà.
Se non conoscete l’inglese non c’è problema: le immagini parlano – anzi, urlano! – da sole.

Vi invito anche a leggere l’opuscolo Meraviglia delle meraviglie, per capire come Israele – “focolare nazionale”, secondo Balfour – fiorisca col sangue palestinese.

In ultimo, vi invito a segnare sull’agenda gli appuntamenti con Samah Jabr.

Con la Palestina nel cuore!

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Aggiornamento del 10 novembre:

cov.it

Ho attraversato l’esperienza del covid.
A voler credere alla narrazione unica dominante, io dovrei essere in intensiva, se non già in una bara, in quanto paziente oncologica, non vaccinata ed esentata dal siero e pure ultracinquantenne.
E invece sono qui: più vispa che mai, con le energie decuplicate.

Il mio è stato, mi vien da dire, un fast-covid.
Un solo giorno di febbre a 38, che ho accolto come sana reazione del mio sistema immunitario all’attacco del virus.
Niente medicinali allopatici, ma solo rimedi naturali e vitamine – alcuni già li prendevo per prevenzione, altri me li ha indicati ad hoc il mio antroposofo storico.

E che non mi si dica anche questa volta che il mio è stato un miracolo, come mi son già sentita dire rispetto al cancro, perché stavolta mi arrabbio davvero!
Non si chiama miracolo, ma autodeterminazione.

Proviamo, allora, a ragionare sui dati di fatto: mangio bene e sano, non mi imbottisco di medicine allopatiche ma, soprattutto, non sono caduta nel trappolone della paura che cercano di incuterci da due anni in qua e che ha abbassato le difese immunitarie di molte persone.

Ho anche toccato con mano il fatto che nessuno, né il medico di base né la asl che ti manda mail di default dopo l’esito positivo del tampone, mostra alcun interesse rispetto alla nostra salute. Né medico né asl mi hanno mai chiamata per sapere come stessi, se e come mi stessi curando, ecc.
Va benissimo così per una come me che sa autogestirsi – anzi: meglio! – ma ho pensato tanto alle persone sole, magari senza strumenti culturali, magari anziane e/o fiduciose in una medicina che si è sviluppata studiando i corpi morti e non quelli viventi e che ha mandato sul rogo le streghe per liberarsi di pericolose concorrenti.

Ci tartassano di dati sui contagi e sui morti (di covid, ovviamente, le altre morti non contano nulla), rispolverano il dizionario patriarcale del peggior colonizzatore per dare del selvaggio – da civilizzare! – e credulone – da ricondurre alla ‘giusta’ e unica fede! – a chi assume vitamine e medicine naturali e rifiuta il loro ‘magico siero della felicità’ e nel frattempo continuano a far crepare di ‘vigile attesa’ o di abbandono totale.
Tanto poi la colpa la riversano sulla categoria lombrosiana dei no-vax, creata per rinforzare la loro narrazione, dissimulare le loro gravi responsabilità e propinare ad oltranza inutili (ormai lo ammettono anche loro: la nave sta affondando!) sieri transgenici.
Esibiscono come trofei i morti non vaccinati e i ‘no vax’ pentiti, mentre occultano i dati sui morti di vaccino o di malasanità.

Se, quindi, prima di prendere il covid ero profondamente scettica e diffidente rispetto alla narrazione unica di politici e virologi superstar, oggi mi sento di dire apertamente che quella narrazione è davvero frutto di una logica criminale!

Ma siccome non intendo farmi avvelenare da questa gentaglia e dal loro infame sistema di premi e punizioni, voglio riportare altri aspetti positivi della mia esperienza.
Prima di tutto l’importanza del continuo contatto con compagne/i per scambiarci consigli sui protocolli naturali che ciascuna/o aveva adottato e su come riuscire a non spendere troppo per procurarsi quei medicamenti, scambiarci anche consigli sull’alimentazione e al contempo stare vicino a chi si si stava facendo il covid in solitudine e tenerlo/a monitorato/a. Una capacità di autogestione collettiva e di solidarietà – quella vera, non quella che ora dall’alto millantano per cancellare ogni possibilità di scelta individuale – che mi ha scaldato il cuore. Sembrava di esser tornata negli anni ’70!

Insomma, devo dirlo fuori dai denti: per me il covid è stata una bella esperienza!
La febbre mi ha anche aiutata ad espellere le tossine accumulate con la rabbia di questi due anni di pandelirio – non per caso alla febbre è seguito un orzaiolo che se n’è andato dopo tre giorni, liberandomi anche da tutte le schifezze che i miei occhi hanno dovuto vedere e leggere per mesi…

Sia chiaro: se per me è stata una passeggiata, sono anche consapevole che c’è chi sta male, a volte anche tanto male. Ma occorre chiedersi perché questo succeda, se ne vogliamo davvero uscire.

Per questo, lo ripeto, non mi si dica di nuovo che il mio è un miracolo.
Ho dovuto lottare duramente perché mi fosse riconosciuta l’esenzione dal vaccino da parte di medici sconosciuti che, negli hub vaccinali, pretendevano di farmi l’anamnesi per stabilire se io potessi o meno esser vaccinata, malgrado presentassi un esplicito certificato da parte di chi da anni mi accompagna nel percorso di guarigione.
Ho dovuto lottare perché nessuno provasse anche solo lontanamente a toccare il mio sistema immunitario.
Ho dovuto lottare per difendere la mia salute dagli interessi economici del capitale.
Ho dovuto lottare perché uno stato implicato fino al midollo – con tanti altri – nella ricerca bellica sulle armi biologiche, non mi facesse cavia fra le sue cavie.
Ho dovuto lottare e mi sono avvelenata di rabbia, ma non sono retrocessa di un passo.

“Ah, ma che dire dei soggetti fragili? Li dobbiamo lasciar morire?”, chiederà qualche anima bella…
Proprio ieri raccontavo per email la mia esperienza di covid ad alcuni medici antroposofici e stamattina uno di loro mi ha risposto segnalandomi un articolo (in fase, credo, di peer reviewing; qui l’abstract) sull’esperienza col covid di un gruppo di pazienti oncologici che seguono la mia stessa terapia col vischio.

È lampante che non si tratti di miracolo!
L’unico miracolo sarebbe se finalmente queste terapie non convenzionali diventassero alla portata di tutti, venendo riconosciute da un sistema sanitario più attento agli interessi delle multinazionali farmaceutiche che non a quelli dei/delle pazienti – per altro i costi di tale terapie son pure molto più contenuti di quelle allopatiche.
Ma qui abbiamo avuto la signora Lorenzin e ora abbiamo il signor Speranza: c’è poco da sperare!

Non resta che continuare a lottare e ad autodeterminarci se vogliamo davvero vivere e non limitarci a sopravvivere per miracolo… Soprattutto con la consapevolezza che la prossima emergenza – già pronta e confezionata – sarà l’emergenza ambientale, che il capitale ha generato depredando e devastando per secoli il pianeta ma che farà pagare a chi questo pianeta lo abita con rispetto ed empatia.

Per ricordare l’Angelo della storia

Ieri abbiamo perso uno dei più importanti intellettuali e storici del Novecento: Angelo Del Boca.

Con il suo rigoroso – e monumentale! – lavoro di ricerca ha rimesso sui suoi piedi la storia dell’Italia coloniale e fascista, svelandone omissioni, rimozioni e mistificazioni che ancora oggi sovrabbondano nei testi scolastici e nelle narrazioni dominanti:

[…] Ma le responsabilità di questi modesti o autorevoli gregari sono insignificanti rispetto a quelle di Mussolini nel suo rapporto con l’Africa. Si tratta di un Mussolini quasi ignoto in Italia, appena sfiorato dallo stesso Renzo De Felice, generalmente trascurato anche dagli storici stranieri, contro il quale non è stata ancora neppure formulata un’istruttoria. Ma questo Mussolini è ben noto in Africa, dovunque i suoi ordini hanno significato violenze e stermini: dal Gebel cirenaico alle montagne lunari della Migiurtinia, dalle strade di Addis Abeba alla città conventuale di Debrà Libanòs. Se l’Africa avesse potuto pretendere una propria Norimberga, se avesse avuto tanta forza da poter istituire processi per i delitti di lesa Africa, questo Mussolini africano non si sarebbe salvato. […] (da Italiani, brava gente?, 2005)

A lui la parola…

Fra gli interventi che oggi lo ricordano segnalo in particolare quello di A. D’Orsi su Micromega; vi invito anche a leggere una intervista pubblicata l’anno scorso sul Manifesto.

Nuove colonie da invadere…

[…] La pandemia di coronavirus ed il confinamento hanno dimostrato ancor più chiaramente come ci hanno ridotto ad oggetti che devono essere controllati, e i nostri corpi e le nostre menti diventano una specie di nuove colonie da invadere. Gli imperi creano colonie, le colonie riuniscono i beni comuni delle comunità autoctone e li trasformano in fonti di materie prime che si estraggono a fini di lucro. Questa logica lineare ed estrattiva è incapace di percepire le relazioni intime che permettono la vita nella natura. È cieca alla diversità, ai cicli di rinnovamento, ai valori del dare e del condividere, così come al potere e al potenziale dell’auto-organizzzazione e del mutuo aiuto. È cieca al disordine che crea e alla violenza che provoca.
Il confinamento prolungato del coronavirus è stato un’esperienza di laboratorio per un futuro senza umanità.
Il 26 marzo 2020, nell’apogeo della pandemia di coronavirus e nel mezzo del confinamento, l’Organizzazione Mondiale della Proprietà Intellettuale (OMPI) ha concesso a Microsoft una patente. La patente WO 060606 stabilisce che “l’attività del corpo umano associata ad un compito affidato ad un utente si può utilizzare in un processo di estrazione di criptomoneta…”.
La “attività corporale” che Microsoft aspira ad”estrarre” comprende le radiazioni emesse dal corpo umano, l’attività cerebrale, la circolazione dei fluidi corporali, la circolazione sanguigna, l’attività degli organi, i movimenti corporali (come quelli oculari, facciali e muscolari), così come tutte le altre attività che si possano individuare e rappresentare tramite immagini, onde, segnali, testi, numeri o qualsiasi altra informazione o dato.
La patente è una richiesta di proprietà intellettuale sul nostro corpo e sulla nostra mente.
Nel colonialismo i colonizzatori si arrogano il diritto di prendersi le terre e le risorse dei popoli autoctoni, di eliminare la loro cultura e la loro sovranità e, in casi estremi, di sterminarli. La patente WO 060606 è una dichiarazione di Microsoft secondo la quale il nostro corpo e la nostra mente sono le sue nuove colonie. Siamo miniere di “materie prime” da estrarre, i dati estratti dal nostro corpo. Invece di esseri sovrani, spirituali, coscienti e intelligenti che prendono decisioni scegliendo con saggezza e che possiedono alcuni valori etici rispetto all’impatto che le nostre azioni hanno sul mondo naturale e sociale di cui facciamo parte e al quale siamo strettamente legati, siamo “utenti”. Un “utente” è un consumatore senza scelta nell’impero digitale.
Ma la visione di Gates non si limita a questo. Di fatto è ancora più sinistra: si tratta di colonizzare il cervello, il corpo e la mente dei nostri figli ancor prima che abbiano avuto l’opportunità di capire com’è la libertà e la sovranità, cominciando dai più vulnerabili. […] VANDANA SHIVA

Il testo integrale si può leggere qui.


Dedicato a chi immagina “un mondo di padroni benevoli”

Ringrazio di cuore Silvia Baraldini per avermi segnalato lo scritto di Caroline Randall Williams You Want a Confederate Monument? My Body Is a Confederate Monument. Una potente riflessione sulla consuetudine di stuprare le schiave negli Stati Uniti e sulla manipolazione della memoria storica, il cui incipit – «Ho la pelle color stupro» – toglie il respiro.

Leggendolo mi ritornava alla mente Amatissima di Toni Morrison, ma pensavo anche ai nostrani apologeti del colonialismo che ripetono all’infinito la menzogna degli “italiani brava gente” e che difendono la memoria di Indro Montanelli. Montanelli era andato in Africa, secondo le sue stesse parole, «non a cercar “colore”, ma a cercarvi una coscienza di uomo», e quella coscienza se l’è costruita – e l’ha costruita all’Italia intera – partecipando a stermini, “comprando” e stuprando una giovanissima colonizzata, guidando poi per decenni il gruppo dei negazionisti sull’uso di armi chimiche nella guerra d’Etiopia. Soltanto nel 1996, infatti, quel crimine di guerra sarebbe stato ammesso dal ministro della Difesa in risposta ad alcune interrogazioni parlamentari.

Rammento ai suddetti apologeti che Montanelli ringraziava Mussolini scrivendo «Questa guerra è per noi come una bella lunga vacanza dataci dal Gran Babbo in premio di tredici anni di scuola. E, detto fra noi, era ora» [*].

Abbattere le statue non è sufficiente se al contempo non si riscrive la storia!

A proposito: questa è un’immagine dello sgombero, avvenuto nella primavera del 2009, del residence Leonardo da Vinci di Bruzzano (nei pressi di Milano), occupato da profughi eritrei. Vi ricorda qualcosa?

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[*] Su queste infami porcherie di Montanelli e sulla polemica con Del Boca sull’uso delle armi chimiche si vedano i libri di Angelo Del Boca Italiani, brava gente? (Neri Pozza Editore, 2005), in particolare le pagg 191, 197-198 e I gas di Mussolini. Il fascismo e la guerra d’Etiopia (Editori Riuniti, 1996), pagg 28-48