Rompere il monopolio della memoria nell’Occidente guerrafondaio

Non intendo dilungarmi sulla miseria di chi da decenni vorrebbe ingabbiarci in una memoria acritica e a senso unico.

Storia e memoria vanno di pari passo, soprattutto quando la storia non è quella scritta dai vincitori e quando è fatta anche da cronache quotidiane di massacri trasmessi in tempo reale.

Vorrei fornire solo alcuni dati attuali, che parlano da sé.
Ma, prima di tutto, una domanda, per dare corpo a quei dati: il “mai più” che si va ripetendo per legge e fino alla nausea da anni, significa “mai più per nessuno” o “mai più solo per alcuni”?

Primo dato: le comunità ebraiche in Italia chiedono che domani, 27 gennaio, siano vietati i cortei per la Palestina, caso mai qualcuno si azzardasse a strappare loro il monopolio del genocidio e della relativa memoria. Eppure la modernità si apre con un immane genocidio: quello dei popoli nativi delle Americhe, di cui ne sono state sterminate decine di milioni in pochi decenni. Un genocidio coloniale, al quale ne sarebbero seguiti altri e poi altri ancora, fino a quello attuale in Palestina. Di quanti di questi genocidi abbiamo sentito parlare? Quanti ne vengono ricordati nelle scuole? (domanda, ovviamente, retorica…)

Secondo dato: nel novembre 2005, l’Assemblea Generale dell’Onu ha adottato per consenso la Risoluzione 60/7 condannando “senza riserve” tutte le manifestazioni (su base etnica o religiosa) di intolleranza, incitamento, molestia o violenza contro persone o comunità e, contestualmente, ha chiesto al Segretario Generale di istituire un programma di sensibilizzazione sull’Olocausto, nonché misure volte a mobilitare la società civile per ricordare l’Olocausto e prevenire futuri atti di genocidio. La genesi della “giornata della memoria” a livello internazionale (e istituzionale) tiene dunque conto della prevenzione: guarda al futuro e non solo al passato.

Terzo dato: che piaccia o meno ai sionisti e ai loro complici, oggi il tribunale internazionale dell’Aja ha confermato che esistono “prove sufficienti” per valutare l’accusa di genocidio nei confronti di Tel Aviv. Il ricorso, presentato dal Sudafrica a fine dicembre, accusava infatti Israele di violare la Convenzione sul Genocidio nella Striscia di Gaza.

Quarto dato: malgrado si stia assistendo ad un genocidio in tempo reale, proprio i paesi che nei secoli scorsi sono stati responsabili di massacri e genocidi coloniali oggi più che mai perseguitano chi osa schierarsi contro il genocidio del popolo palestinese. Il caso dell’educatore algerino di Roma perquisito senza nemmeno un mandato e sospeso dal lavoro è esemplare, soprattutto se pensiamo che l’Italia è stato il primo paese che ha imposto per legge un regime di apartheid nelle proprie colonie, un decennio prima che venisse imposto dalla minoranza bianca in Sudafrica.

Sarà un caso che non ci sia una giornata della memoria che ricordi i crimini compiuti nelle colonie italiane del Corno d’Africa? E che proprio quelle colonie, come ho ampiamente documentato in Difendere la “razza”, siano state il laboratorio delle leggi razziali che sarebbero state emanate in Italia successivamente, nel ’38?

Se davvero di memoria vogliamo parlare, parliamo anche dell’uso politico che della memoria – così come della storia – viene fatto.
Se davvero di memoria vogliamo parlare, chiediamoci perché le comunità ebraiche si preoccupino più dei cortei di solidarietà con la Palestina che della riorganizzazione dei gruppi e dei partiti neonazisti in tutto l’Occidente (talvolta perfino trattati come eroi, come nel caso degli Azov); chiediamoci perché da un anno una militante antifascista italiana si trovi rinchiusa nelle fetide galere ungheresi e nessuno ne abbia parlato per mesi e mesi.

Se davvero di memoria vogliamo parlare rompiamone, prima di tutto, il monopolio!

Percorsi abolizionisti

«Questo libro l’ho scritto con rabbia. L’ho scritto tra il 1974 e il 1979 (anno in cui fu pubblicato) come contrappunto ideologico alla legislazione sull’emergenza. Volevo documentare quanto fosse equivoco fingere di voler salvare lo Stato di Diritto trasformandolo in Stato di polizia; e dimostrare che opporre la violenza legale a quella illegale era un antico vizio italiano che non era mai riuscito a nascondere la fondamentale intolleranza – mascherata sotto il nome di difesa della religione, della patria, delle istituzioni democratiche, ecc. – che nel metodo inquisitorio aveva sempre trovato il mezzo più opportuno per concretarsi nell’effettività. Da lì il perdurante medioevo giuridico in cui ancora oggi viviamo; e cioè: la mancanza di habeas corpus; la possibilità di essere arrestati per un semplice sospetto (chiamato anche indizio), e la regola di esser giudicati sempre non dai propri pari, ma da un giudice-professionista (un tempo in tonaca, oggi togato); l’obbligo per l’imputato di dimostrare la propria innocenza (vale a dire l’inversione dell’onere della prova); l’istruttoria scritta e segreta, senza contraddittorio; la segregazione cellulare e la tortura per costringere a confessarsi colpevole dei reati imputati; la possibilità di condannare non basandosi sulle prove ma sul “libero convincimento” dell’inquisitore; l’irresponsabilità totale del pubblico ministero e degli altri inquirenti per qualunque loro iniziativa giudiziaria; il nessun conto in cui da allora è sempre stato tenuto l’avvocato, ed infine la mancanza di qualsiasi diritto, soprattutto da parte degli accusati di lesa maestà divina od umana (vale a dire dei reati di eresia o di quelli contro la “personalità dello Stato”)».

Con queste parole – molto attuali! – Italo Mereu presentava, nel 1988, la riedizione di Storia dell’intolleranza in Europa.
Sarò sempre grata a Luciano Parinetto di averlo fatto conoscere a tanti/e studenti che, come me, frequentavano i suoi corsi!

L’ipocrisia benpensante nasconde, ancora oggi, dietro un “Sì, ma…” la propria avversione ad ogni ipotesi abolizionista e, quindi, la propria complicità col secolare sistema inquisitorio e repressivo di cui scriveva Mereu.
La stessa gestione politica del pandelirio-covid si è appoggiata su quel sistema, rafforzandolo e moltiplicandone a dismisura il numero dei complici e degli asserviti.

Angela Davis da tempo ci dice che i muri abbattuti diventano ponti. Per questo occorre allargare la crepa che si è aperta di recente nella dominante cultura forcaiola, fino allo sgretolamento di quella cultura e, soprattutto, dei muri che innalza e difende.
È un’occasione che non possiamo perdere, dopo decenni di silenzi omertosi su ricatti (anche sessuali), mattanze, agonie e suicidi nei luoghi di reclusione.

Come diceva un vecchio ma intramontabile slogan, per abolire il carcere è necessario, prima di tutto, liberarsi dalla necessità del carcere.

A chi volesse approfondire le ipotesi abolizioniste, propongo la lettura di Il carcere immateriale, di Ermanno Gallo e Vincenzo Ruggiero (che potete scaricare qui).

Troppo presto dimenticato e ovviamente sconosciuto alle giovani generazioni, è un testo che stimola riflessioni e, soprattutto, fornisce un’ottima bibliografia utile a scardinare il paradigma culturale dominante e l’ignavia che lo supporta.

Buona lettura!

Monopolio statale della violenza e dell’agonia

«Orso-che-corre trascorre oltre venti anni nel braccio della morte, dove si ammala gravemente: quasi cieco, ridotto su una sedia a rotelle e con il cuore ferito severamente da due infarti. La sua storia evidenzia un aspetto essenziale dell’agonia nella death row [braccio della morte]. Due mesi prima dell’esecuzione Ray Allen viene sottoposto, per decisione istituzionale, a un sofisticato intervento chirurgico al cuore. Lo Stato decide che deve essere tenuto in vita, per essere ucciso, sessanta giorni dopo, con una iniezione letale» (*).

La vicenda di Ray Allen/Orso-che-corre – Ya-nu-a-di-si, nella sua lingua nativa – è senza dubbio paradigmatica dell’intreccio tra sadismo istituzionale, monopolio statale della violenza e burocrazia che caratterizza la gestione dei corpi reclusi.
Ugualmente paradigmatica è la minaccia – e, purtroppo, la possibilità concreta – di sottoporre a nutrizione forzata Alfredo Cospito, recluso in regime di 41bis e da oltre tre mesi in sciopero della fame contro quello stesso regime di tortura.

Sottrarre e negare al recluso ogni possibilità di autodeterminazione è la dimostrazione più lampante e feroce di quanto il regime carcerario rappresenti esclusivamente la volontà di vendetta dello Stato: se vuoi vivere ti seppellisco vivo/a, se vuoi morire ti tengo in vita a forza (lasciandoti sepolto, ovviamente!), affinché tu non possa MAI fare del tuo corpo uno strumento di resistenza al monopolio statale della violenza.

Alcuni anni fa ho avuto occasione di visitare una mostra sulla storia dello sciopero della fame, allestita a Kilmainham Gaol, ex carcere dublinese dove furono rinchiusi e fucilati anche i principali esponenti dell’Insurrezione di Pasqua del 1916. Una sala della mostra era dedicata proprio alla nutrizione forzata, cui furono costrette tanto le suffragette incarcerate negli anni ’10-’20 quanto le militanti repubblicane Dolours e Marion Price nei primi anni ’70 del secolo scorso ed erano esposti anche gli strumenti (di tortura!) utilizzati per questa violenta pratica coercitiva, poi dichiarata non-etica dall’Associazione medica mondiale nel 1975.

A cinquant’anni di distanza da quella dichiarazione non solo le cose non sono cambiate ma, come due anni di pandelirio hanno ampiamente dimostrato, il monopolio statale della violenza va a braccetto con la sovradeterminazione, da parte istituzionale, delle scelte individuali di vita e di morte così come di quelle relative alla salute e alla cura.
La riduzione capitalistica degli esseri umani a merci, la definitiva reificazione-alienazione dell’individuo nelle mani dello Stato e del Kapitale passa anche – e prima di tutto – attraverso la negazione e la criminalizzazione di ogni forma di autodeterminazione.

Per questo le lotte contro il carcere e contro tutte le istituzioni totali e le loro propaggini nelle istituzioni ordinarie sono lotte femministe, oltre che libertarie e anticapitaliste, come già le nostre compagne ci hanno dimostrato un secolo fa.

(clicca sull’immagine per ingrandirla)

Il silenzio del femminismo mainstream su carcere e istituzioni totali e la ricorrente richiesta di leggi contro la violenza maschile sulle donne, oltre a dimostrare un’ignoranza storica abissale sono i chiari segnali di una volontà collaborazionista con chi si arroga il monopolio della vita, della morte e dell’agonia altrui.

(*) Nicola Valentino, Le istituzioni dell’agonia. Ergastolo e pena di morte, Sensibili alle foglie 2017

Mobilitazione psicologica

Adolfo Mignemi, nel capitolo “Libro e moschetto” del suo fondamentale Immagine coordinata per un impero. Etiopia 1935-1936 (gruppo editoriale Forma,1983), dedica alcune pagine al ruolo che ebbe il corpo insegnante nella propaganda imperialista.
Non sto a sintetizzare quelle pagine, ma le riporto qui scansionate, invitandovi a leggerle non solo per meditare sull’attualità di alcuni passaggi – la Giornata del Risparmio, istituita dal regime di Mussolini, ha ben poco da invidiare agli ‘inviti’ governativi a ridurre i consumi che si moltiplicano in questi giorni, tanto per fare un esempio… – ma soprattutto per riflettere sulla persistenza dei dispositivi della mobilitazione psicologica in ambito culturale ed educativo.

Tale mobilitazione psicologica, per altro, non è che una delle lame di coltello insanguinate del post precedente.

Lo abbiamo visto in questi anni di pandelirio – su cui sarei anche stufa di soffermarmi: ormai chi ha voluto capire ha capito e a chi non ha voluto capire rimane solo Speranza – e non la speranza!

Lo rivediamo in questa guerra per procura della Nato.

Ricorderete bene, immagino, l’affaire Dostoevskij sollevato dall’università di Milano-Bicocca nel marzo scorso. Ma siccome non c’è limite al peggio, è di oggi questa notizia, riportata da Laura Ru con tanto di foto nel suo canale Telegram:

GERMANIA – Uno strano annuncio è apparso in una biblioteca pubblica di Dresda. Si incoraggiano i lettori a consegnare libri di autori russi da utilizzare per riscaldare l’edificio durante la stagione fredda.
«Affrontare l’aggressione russa è un impegno collettivo. La letteratura russa non ha posto nella tua libreria. A causa della prevista riduzione del riscaldamento in autunno e in inverno, ti chiediamo di donare libri di autori russi da utilizzare per il riscaldamento della biblioteca. In questo modo, sarai in grado di leggere buoni libri anche se Putin interrompe la fornitura del gas».
L’annuncio lo ha firmato il capo della biblioteca-Katrin Stump, il cui profilo su Twitter https://twitter.com/katrin_stump e’ accompagnato dalle bandierine di UE e Ucraina, il che significa che la direttrice della biblioteca principale della Sassonia è schierata politicamente in modo esplicito.
Qualcuno dovrebbe ricordarle che erano i nazisti a bruciare i libri in Germania. @LauraRuHK

Ora capite da quali profonde cloache traggano ispirazione costoro, ai/alle quali non vale nemmeno la pena di domandare che c’entrino con Putin i capolavori della letteratura mondiale.
E mi chiedo quante e quali altre ancor più profonde cloache siano disposti/e a dragare per continuare a supportare questa immonda mobilitazione psicologica.

Aggiornamento del 5 settembre: pare che la direttora della biblioteca di Dresda abbia smentito la notizia. Buon per lei, ma nulla toglie al senso complessivo di questo mio post.

Esempio di piccola ma importante resistenza di una piccola ma resistente biblioteca

Dedicato a Sylvia Rivera e alla bottiglia che lanciò

Sylvia Rivera

Come è noto, una recentissima sentenza della Corte suprema statunitense ha reso illegale l’interruzione di gravidanza, rendendo ancora più difficile la vita delle donne in quella che continuano a spacciare come ‘patria dei diritti’ – malgrado si sia poco-niente evoluta dalla mentalità da Far West su cui è stata fondata, sterminando la popolazione nativa o relegandola nelle riserve.

I peggiori guerrafondai sono immancabilmente proprio quelli che si sbracciano contro le donne che abortiscono. Si chiama difesa ipocrita della vita.
Verrebbe da pensare che ritengano le donne delle mere incubatrici-riproduttrici da sfruttare in base alle esigenze del capitale e della propagazione della ‘razza bianca’, in particolare se si tiene conto delle campagne statunitensi per la sterilizzazione forzata del secolo scorso e di quelle ancora in atto oggi in quei territori…

Per parlare di difesa ipocrita della vita, per altro, non c’è bisogno di andare Oltreoceano: l’altra sedicente ’patria dei diritti’, l’Europa, non è da meno.
Che dire della Polonia, oggi più guerrafondaia&antiabortista che mai? O della stessa Italia che pullula di obiettori negli ospedali, che ha imposto ‘per il nostro bene’ sieri sperimentali i cui effetti deleteri emergono di giorno in giorno con sempre maggiore chiarezza e che si affanna ad alimentare una guerra dopo l’altra?

Inutile dilungarsi con altri esempi: basta guardarsi intorno o informarsi un po’ per trovarne a iosa.

Mi preme, invece, rilevare come sia sempre più ricorrente l’espressione (terribile quanto assurda) “diritto di aborto”, che da una parte dissimula l’incapacità maschile di praticare una sessualità non riproduttiva/penetrativa e dall’altra impone di leggere le contraddizioni del reale in un’ottica meramente dirittista, quindi delegando tutto allo Stato e ai suoi apparati e sottraendo, nei fatti, ogni spazio all’autodeterminazione e a chi la pratica veramente.

La mentalità dirittista è ormai talmente pervasiva che può capitare di leggere nella piattaforma di un Pride X in una città X, «Vogliamo una nuova legge sull’autodeterminazione di genere sulla base del “consenso informato”».

Essendo una ‘ragazza’ dello scorso millennio, nella mia testa autodeterminazione e legge sono categorie opposte.
Si è forse ormai persa ogni capacità logica al punto che l’autodeterminazione vien fatta coincidere con la sovradeterminazione?

In questo mio sito, così come nei miei testi, ho abbondantemente scritto di autodeterminazione, quindi non mi dilungo neppure su questo punto e mi limito a segnalare, tra i tanti, il post Come uno zoccolo negli ingranaggi del patriarcato.

Decenni dopo la rivolta di Stonewall, di cui questa notte ricorre l’anniversario, la deleteria mescolanza di perbenismo borghese e postmodernismo hanno smantellato le istanze di rabbia e autodeterminazione espresse in quella e altre rivolte, addomesticandole per misere carrierucole di politicanti o per altrettanto misere rivendicazioni ‘dalla base’ – una base per altro senza base se pensiamo, ad esempio, alle rivendicazioni contro razzismo e abilismo in cortei dove sfido chiunque a trovare immigrati/e o disabili.
Come scriveva Luciano Parinetto, «Il riconoscimento alienato è la perdita stessa dell’autenticità: di quel diverso che rendeva l’eros testimone di una radicale contestazione della atomizzazione consacrata dal capitale» (Faust e Marx, 1989).

La lotta contro pregiudizi e discriminazioni specifici agiti contro individualità e/o soggettività specifiche sta trasformandosi nell’ennesima notte in cui tutte le vacche sono nere, in cui tutto è indistinto, è – sartrianamente – una serie o, meglio, una serie di serie.

Capita quindi che qualcuno/a attinga dalla palude degli -ismi per accusare di abilismo chi ha scelto, ad esempio, di autodeterminarsi rispetto all’inoculazione di sieri sperimentali, sottraendosi alla pressante campagna vaccinale fino, magari, al punto di perdere il lavoro.

Così come l’autodeterminazione da pratica si rovescia in ‘diritto’ che deve essere concesso dall’alto, la difesa autentica della vita, rovesciandosi in difesa ipocrita della vita, può andare a braccetto con le logiche di guerra e con quelle di depredazione, sfruttamento e sterminio del vivente.
Senza contraddizione alcuna. Anzi: avanti a tutta dritta, verso la catastrofe!

Di emergenze, armi biologiche e altre amenità del presente

La notizia della scoperta di decine di laboratori per la guerra biologica in Ucraina aveva fatto immediatamente sorgere in me un’ovvia domanda: quanti altri laboratori di quel genere ci sono in Italia e nel mondo? E dove, di preciso?

Inutile cercare nel web le risposte perché non se ne trovano (segreto militare…).
Anzi, nel sito della Rappresentanza permanente d’Italia alle Nazioni unite troviamo affermazioni quali:
La Convenzione sulle armi biologiche (Convention on Biological Weapons – BWC) vieta lo sviluppo, la produzione e la detenzione di armi batteriologiche (biologiche) e tossiniche (virus, batteri, microrganismi, spore, tossine) e impone la distruzione degli stock esistenti. Entrata in vigore nel marzo 1975, essa è il primo trattato multilaterale che vieta la produzione e l’utilizzo di un’intera categoria di armi. A oggi è stata ratificata da 183 Stati e firmata da altri 4
oppure
Per l’Italia, che considera la BWC uno strumento fondamentale per il divieto della produzione, sviluppo, acquisizione e utilizzo di agenti biologici e tossinici come armi di distruzione di massa, l’universalizzazione della Convenzione e il suo rafforzamento, soprattutto sul versante della sua applicazione da parte dei Paesi membri, costituiscono delle priorità
o, ancora,
Infine, l’Italia è particolarmente impegnata nell’assicurare un appropriato monitoraggio e valutazione degli sviluppi tecnologici e scientifici in campo biologico suscettibili di avere impatti negativi sull’attuazione della Convenzione.

Eppure se si scava un po’ a fondo, le cose non stanno proprio così. Anzi!
Senza farla lunga, vi invito caldamente ad ascoltare l’intervista a J. Tritto sulle “Chimere emergenti” pubblicata da Ovalmedia, che dà risposta a queste e a tante altre domande.

Ora diventa chiaro che l'”emergenza sanitaria”, inventata di punto in bianco col pretesto del covid-19, era in realtà una emergenza bellica.
D’altra parte lo ha dimostrato anche il susseguirsi di generali della Nato – Figliuolo prima e Petroni poi – alla carica di “Commissario straordinario per l’attuazione e il coordinamento delle misure di contenimento e contrasto dell’emergenza epidemiologica COVID-19 e per l’esecuzione della campagna vaccinale nazionale”.
Se di guerra si tratta ci vogliono i generali, mica i medici!

Alcuni giorni fa sono stata invitata da un gruppo di studenti contro il green pass per parlare del paradigma scientifico riduzionista, di cui qui potete ascoltare l’intervento iniziale (molte altre cose sono state dette nel corso del dibattito, non registrato).

Come sempre, quando ho spiegato che secondo me il problema non è tanto il green pass quanto lo stato d’emergenza di cui quel lasciapassare non è che un corollario come corollari ne sono stati il lockdown, il coprifuoco, la militarizzazione e tutte le altre vessazioni più o meno belliche cui siamo stati sottoposti per oltre due anni delle nostre preziose vite, ho notato degli sguardi perplessi. Ancor più perplessi nel momento in cui ho spiegato come, a mio parere, dietro le quinte ci sia sempre la guerra.

Eppure non un complottista-terrapiattista ma uno scienziato come Tritto ci spiega con dovizia di particolari, di fondo, la stessa cosa: tra guerra e pandemia non c’è soluzione di continuità. E, soprattutto, non è che l’inizio.

Non mi dilungo oltre.
Preferisco lasciare che ciascuno e ciascuna provi a ragionare – malgrado le torride giornate che l’incazzatissima natura ci sta ‘regalando’ a monito – su cosa significhi deterrenza batteriologica e che implicazioni abbia sulla nostra salute e sulla nostra esistenza nel suo complesso.
E, auspicabilmente, decida che è ora di mobilitarsi per l’uscita dell’Italia dalla Nato e dalla colonizzazione statunitense. E anche per lo scioglimento della Nato. Perché no?!

Achtung Alpinen!

Da qualche giorno si parla delle numerose molestie che molte donne hanno vissuto in occasione del raduno degli alpini a Rimini.

Nulla di nuovo: già nel 2018 in questo sito avevo riportato le testimonianze di compagne trentine (1 e 2) che raccontavano le stesse dinamiche patriarcal-militari. E chissà se anche questa volta il pronto soccorso ginecologico dell’ospedale cittadino è stato rafforzato in occasione dell’arrivo dell’orda pennuta…

Chi finge di scoprire oggi l’acqua calda, per altro invitando le donne a denunciare, ha per caso detto mezza parola quando la salute di un intero paese è stata militarizzata e proprio ad un alpino, generale della Nato, è stata affidata la distribuzione di sieri da sperimentare sulla pelle di quella stessa popolazione?

Figuriamoci! Mai state così tanto zitte, le sedicenti femministe!!!

E oggi che soluzione propongono alle molestie di Rimini? Ovviamente non l’auspicabile assedio di donne alle sedi degli alpini per urlare un collettivo e tonante ‘NO!’, né tanto meno una mobilitazione che dica, una volta per tutte, che non ne possiamo più di militari e militarizzazione.

Anzi: la soluzione proposta è quella di rivolgersi alle divise per denunciare altre divise. Complimenti! Così le donne che hanno vissuto sulla propria pelle le molestie dovranno anche dimostrare con prove la veridicità delle loro affermazioni, lasciando ulteriore spazio alle schifezze che già dal mondo degli alpini – e delle alpine… – si vanno moltiplicando a propria difesa.
Davvero femminista come pratica, non c’è che dire!

Ma costoro si rendono conto o no che in questo modo non si fa altro che ribadire quella stessa logica perversa sdoganata dall’operazione ‘strade sicure’ per cui la sicurezza delle donne sarebbe garantita dai loro potenziali (e non solo potenziali, se pensiamo a Francesco Tuccia) stupratori in divisa?

A questo punto perché queste sedicenti femministe non chiedono che la fanteria o il settimo cavalleggeri presidino la città in cui si terrà il prossimo incontro?

Inutile dire che nemmeno ci provo a far ragionare costoro, poiché dalla sua nascita nudm non fa che elemosinare leggi e soldi allo stato patriarcale e la radicalità femminista non è proprio nelle sue corde.

Che continuino pure sulla loro strada suicida costoro; ma noi, femministe non addomesticate né addomesticabili, che intendiamo fare?
Ci andiamo o no sotto le sedi degli alpini?

E, soprattutto, vogliamo organizzare o no un bel ‘benvenuto’ per quando questa orda di molestatori avvinazzati si presenterà a Udine nel 2023?

Tra l’altro quelle zone sono state anche la culla di Gladio, la Stay Behind italiana, e, della Protezione civile dopo il fallito tentivo di Scelba di fondarla per il controllo (para)militare del territorio (*)…

Serve aggiungere altro?

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(*) Non finirò mai di ringraziare Alessandra Kersevan per avermi illuminata su queste e altre friulane ‘coincidenze’ non casuali, in occasione di una iniziativa a Udine in cui ero stata invitata a parlare di militarizzazione della salute e dei territori

Che due anni di pandelirio non finiscano nel dimenticatoio!

Il 23 e 24 aprile prossimi si terrà a Napoli il convegno autogestito Tutta un’altra storia. Un’occasione importante per ritrovarci e confrontarci e, soprattutto, perché non si perda la memoria della gestione autoritaria e delle vessazioni che hanno caratterizzato questi ultimi due anni.

Qui il programma e il testo dell’invito al dibattito.

Lo spettro di Seveso

Era il lontano 2007 quando, come collettivo Maistat@zitt@, organizzammo a Milano un incontro su produzioni di morte, nocività e difesa ipocrita della vita, a partire dal disastro avvenuto a Seveso poco più di trent’anni prima.

Rileggere i dispositivi autoritari con cui le istituzioni gestirono l'”emergenza diossina” a Seveso può fornirci degli strumenti utili per comprendere il presente e liberarci definitivamente dalla narrazione tossica che da due anni ci avvelena l’esistenza e ‘militarizza’ la nostra salute.

Per questo da alcune settimane ho cominciato a girare per l’Italia proponendo un percorso di riflessione su queste tematiche che ci aiuti a comprendere come differenti percezioni del rischio possano attivare strumenti di lotta e di autodeterminazione o, all’opposto, aprire la strada a soluzioni autoritarie.

Man mano che si definiscono aggiornerò qui i prossimi appuntamenti, ma intanto vi invito a leggere l’intramontabile (purtroppo!) Topo Seveso.

Appuntamenti: Roma – 5 marzo; Pisa – 13 marzo; Bologna – 18 marzo; Udine/Trieste – 19 e 20 marzo; Genova – 23 marzo; Busto Arsizio – 2 aprile; Parma – 6 maggio; Ravenna – 7 maggio (1 e 2); Trento – 8 maggio; Taranto – 21 maggio; Tradate – 3 giugno; ….

Seveso, 1976