L’ultima parte di cielo, l’ultima goccia di acqua…

Noi, palestinesi, insegniamo la vita dopo che loro hanno occupato l’ultima parte di cielo…
Vi invito ad ascoltare le potenti parole di Rafeef Ziadah in questo video…

…e a seguire Al Jazeera per ascoltare altre voci e testimonianze che l’italico mainstream mai e poi mai trasmetterà.
Se non conoscete l’inglese non c’è problema: le immagini parlano – anzi, urlano! – da sole.

Vi invito anche a leggere l’opuscolo Meraviglia delle meraviglie, per capire come Israele – “focolare nazionale”, secondo Balfour – fiorisca col sangue palestinese.

In ultimo, vi invito a segnare sull’agenda gli appuntamenti con Samah Jabr.

Con la Palestina nel cuore!

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Aggiornamento del 10 novembre:

Strade colore del sangue – Due voci da Gaza

Ghassan Kanafani

Ghassan Kanafani era un militante del FPLP, fu ucciso a Beirut nel 1972 in un attentato del Mossad in cui perse la vita anche la nipote sedicenne.

Voglio oggi ricordare alcuni stralci della sua Lettera da Gaza del 1956 (che si può leggere integralmente qui).

[…] Questa Gaza, più stretta del respiro di uno che sogna un incubo terribile, con l’odore particolare dei suoi stretti vicoli, l’odore della povertà e della sconfitta, e le case con i protuberanti balconi… questa Gaza!
Ma quali sono gli oscuri motivi che attirano un uomo verso la sua famiglia, la sua casa, le sue memorie, come una sorgente attira un piccolo gregge di capre montanare? Non lo so. Tutto quello che so è che andai da mia madre, a casa nostra, quella mattina. Quando arrivai, incontrai la moglie del mio defunto fratello che mi chiese, piangendo, di far visita a Nadia quella sera, la figlia ferita ricoverata in ospedale, secondo il suo desiderio. Conosci Nadia, la bella figlia tredicenne di mio fratello?
Quella sera comprai un po’ di mele e mi preparai a fare visita a Nadia in ospedale. Sapevo che c’era qualcosa che mia madre e mia cognata mi stavano nascondendo, qualcosa che le loro labbra non potevano pronunciare, qualcosa di strano che non potevo cogliere. Volevo bene a Nadia con naturalezza, la stessa naturalezza che mi faceva voler bene a tutta quella generazione che era stata allevata sulle sconfitte e sulla rimozione, pensando che una vita felice fosse un genere di devianza sociale.
Cosa successe al momento? Non lo so. Entrai con calma nella stanza bianca. I bambini malati avevano qualcosa della santità; la malattia del bambino sembrava il risultato di ferite dolorose, crudeli. Nadia era sdraiata sul letto, con la schiena appoggiata su un grande cuscino, sul quale si spargevano i suoi capelli come una folta chioma. C’era un profondo silenzio che veniva dai suoi occhi spalancati, e una lacrima brillava nell’intensità delle sue pupille nere. Il suo viso era imperturbabile ma eloquente, come può essere la faccia di un profeta torturato. Nadia era ancora una bambina, ma sembrava più che una bambina, molto di più, e più grande di una bambina, molto più grande.
[…]
“Nadia! Ti ho portato dei regali dal Kuwait, diversi regali. Aspetto che lasci il letto, completamente guarita, verrai a casa e te li darò. Ti ho comprato i pantaloni rossi che mi hai chiesto nella lettera. Sì, li ho comprati.”
Era una bugia, generata dalla tensione della situazione, ma come la pronunciai sentii che stavo dicendo per la prima volta la verità. Nadia tremò come se le avessero fatto l’elettro shock, e abbassò la testa in un terribile silenzio. Sentivo le sue lacrime bagnare il dorso della mia mano.
“Dimmi qualcosa, Nadia! Non vuoi i pantaloni rossi?” Sollevò lo sguardo verso di me e fece come parlare, ma poi si fermò, strinse i denti e sentii ancora la sua voce, come se venisse da lontano.
“Zio!”
Tese le mani, sollevò il bianco copriletto con le sue dita e indicò la sua gamba, amputata dalla coscia.
Amico mio… Non potrò mai dimenticare la gamba di Nadia, amputata dalla coscia. No! Non dimenticherò mai il dolore che modellò il suo viso e si fuse per sempre nei suoi tratti. Quel giorno uscii dall’ospedale di Gaza con la mano che stringeva, in silenzioso scherno, le monete che avevo portato per Nadia. Il sole cocente riempiva le strade con il colore del sangue. […]

Shahd Abusalama

Molti decenni più tardi, in una intervista del 2014, la militante e artista palestinese Shahd Abusalama afferma:

Non credo più nella pace. È una parola che Israele ha usato così tante volte e di cui ha abusato così a lungo, al punto che ha perso ogni residuo di significato e attendibilità. Parlano di pace, ma lanciano bombe sulla Striscia; parlano di pace, ma continuano a colonizzare le nostre terre; parlano di pace, ma uccidono i nostri ragazzi. Non è questa la “pace” che vogliamo, non vogliamo la loro “pace”. Il mio popolo ama la vita, che sia chiaro. Ma la giustizia viene prima della pace. Non accetteremo mai il processo di normalizzazione. Non si tratta di due schieramenti uguali: noi siamo gli occupati, loro gli occupatori. E ogni mezzo utile a raggiungere la giustizia è necessario alla causa.
[…]
Ho vissuto a Gaza per tutta la mia vita, isolata dai palestinesi della Diaspora o di Cisgiordania. Come dicevo prima, Gaza è una prigione a cielo aperto, un ghetto a tutti gli effetti. Certo, Gaza ha delle caratteristiche uniche, ma non voglio concentrarmi su questo. Non ora. Per noi è molto difficile superare i confini e quando ci riusciamo dobbiamo affrontare i checkpoint, l’occupazione ha reso la nostra vita quasi impossibile. Voglio sottolineare una cosa: la mia identità non è soltanto gazawi, ma palestinese. Io sono palestinese. Non sono semplicemente una residente della Striscia, io vivo in Palestina. E questa identità, così messa a dura prova dall’occupazione, viene rafforzata proprio da ciò che dovrebbe distruggerla. Noi di Gaza e “loro” in Cisgiordania siamo un unico popolo. Così come sono parte integrante del popolo palestinese i discendenti dei rifugiati.
[…]
La mia Gaza è il campo in cui Israele pratica punizioni collettive e in cui deporta chi vuole, come vuole. I media occidentali spesso dicono che, non essendoci più un solo soldato israeliano sulla Striscia, non c’è neanche un’occupazione. Niente di più sbagliato, niente di più “normalizzante”. I loro soldati – posizionati sulle torrette al confine – sparano ai nostri contadini, le loro navi sparano ai nostri pescatori, i loro aerei volano sulle nostre teste minacciando continuamente di bombardare (e spesso lo fanno).
[…]

Con la Palestina nel cuore!

Lager per disabili

La storia di Mattia è il titolo di un interessante reportage della brava Maria Elena Scandaliato, che vi invito a visionare e a non dimenticare.

Ringrazio per la segnalazione il collettivo antipsichiatrico Artaud, nel cui blog potete leggere sia i vari passaggi di questa terribile vicenda di cui è stato vittima Mattia, sia tante altre storie di ordinaria violenza psichiatrica.

Percorsi abolizionisti

«Questo libro l’ho scritto con rabbia. L’ho scritto tra il 1974 e il 1979 (anno in cui fu pubblicato) come contrappunto ideologico alla legislazione sull’emergenza. Volevo documentare quanto fosse equivoco fingere di voler salvare lo Stato di Diritto trasformandolo in Stato di polizia; e dimostrare che opporre la violenza legale a quella illegale era un antico vizio italiano che non era mai riuscito a nascondere la fondamentale intolleranza – mascherata sotto il nome di difesa della religione, della patria, delle istituzioni democratiche, ecc. – che nel metodo inquisitorio aveva sempre trovato il mezzo più opportuno per concretarsi nell’effettività. Da lì il perdurante medioevo giuridico in cui ancora oggi viviamo; e cioè: la mancanza di habeas corpus; la possibilità di essere arrestati per un semplice sospetto (chiamato anche indizio), e la regola di esser giudicati sempre non dai propri pari, ma da un giudice-professionista (un tempo in tonaca, oggi togato); l’obbligo per l’imputato di dimostrare la propria innocenza (vale a dire l’inversione dell’onere della prova); l’istruttoria scritta e segreta, senza contraddittorio; la segregazione cellulare e la tortura per costringere a confessarsi colpevole dei reati imputati; la possibilità di condannare non basandosi sulle prove ma sul “libero convincimento” dell’inquisitore; l’irresponsabilità totale del pubblico ministero e degli altri inquirenti per qualunque loro iniziativa giudiziaria; il nessun conto in cui da allora è sempre stato tenuto l’avvocato, ed infine la mancanza di qualsiasi diritto, soprattutto da parte degli accusati di lesa maestà divina od umana (vale a dire dei reati di eresia o di quelli contro la “personalità dello Stato”)».

Con queste parole – molto attuali! – Italo Mereu presentava, nel 1988, la riedizione di Storia dell’intolleranza in Europa.
Sarò sempre grata a Luciano Parinetto di averlo fatto conoscere a tanti/e studenti che, come me, frequentavano i suoi corsi!

L’ipocrisia benpensante nasconde, ancora oggi, dietro un “Sì, ma…” la propria avversione ad ogni ipotesi abolizionista e, quindi, la propria complicità col secolare sistema inquisitorio e repressivo di cui scriveva Mereu.
La stessa gestione politica del pandelirio-covid si è appoggiata su quel sistema, rafforzandolo e moltiplicandone a dismisura il numero dei complici e degli asserviti.

Angela Davis da tempo ci dice che i muri abbattuti diventano ponti. Per questo occorre allargare la crepa che si è aperta di recente nella dominante cultura forcaiola, fino allo sgretolamento di quella cultura e, soprattutto, dei muri che innalza e difende.
È un’occasione che non possiamo perdere, dopo decenni di silenzi omertosi su ricatti (anche sessuali), mattanze, agonie e suicidi nei luoghi di reclusione.

Come diceva un vecchio ma intramontabile slogan, per abolire il carcere è necessario, prima di tutto, liberarsi dalla necessità del carcere.

A chi volesse approfondire le ipotesi abolizioniste, propongo la lettura di Il carcere immateriale, di Ermanno Gallo e Vincenzo Ruggiero (che potete scaricare qui).

Troppo presto dimenticato e ovviamente sconosciuto alle giovani generazioni, è un testo che stimola riflessioni e, soprattutto, fornisce un’ottima bibliografia utile a scardinare il paradigma culturale dominante e l’ignavia che lo supporta.

Buona lettura!

Monopolio statale della violenza e dell’agonia

«Orso-che-corre trascorre oltre venti anni nel braccio della morte, dove si ammala gravemente: quasi cieco, ridotto su una sedia a rotelle e con il cuore ferito severamente da due infarti. La sua storia evidenzia un aspetto essenziale dell’agonia nella death row [braccio della morte]. Due mesi prima dell’esecuzione Ray Allen viene sottoposto, per decisione istituzionale, a un sofisticato intervento chirurgico al cuore. Lo Stato decide che deve essere tenuto in vita, per essere ucciso, sessanta giorni dopo, con una iniezione letale» (*).

La vicenda di Ray Allen/Orso-che-corre – Ya-nu-a-di-si, nella sua lingua nativa – è senza dubbio paradigmatica dell’intreccio tra sadismo istituzionale, monopolio statale della violenza e burocrazia che caratterizza la gestione dei corpi reclusi.
Ugualmente paradigmatica è la minaccia – e, purtroppo, la possibilità concreta – di sottoporre a nutrizione forzata Alfredo Cospito, recluso in regime di 41bis e da oltre tre mesi in sciopero della fame contro quello stesso regime di tortura.

Sottrarre e negare al recluso ogni possibilità di autodeterminazione è la dimostrazione più lampante e feroce di quanto il regime carcerario rappresenti esclusivamente la volontà di vendetta dello Stato: se vuoi vivere ti seppellisco vivo/a, se vuoi morire ti tengo in vita a forza (lasciandoti sepolto, ovviamente!), affinché tu non possa MAI fare del tuo corpo uno strumento di resistenza al monopolio statale della violenza.

Alcuni anni fa ho avuto occasione di visitare una mostra sulla storia dello sciopero della fame, allestita a Kilmainham Gaol, ex carcere dublinese dove furono rinchiusi e fucilati anche i principali esponenti dell’Insurrezione di Pasqua del 1916. Una sala della mostra era dedicata proprio alla nutrizione forzata, cui furono costrette tanto le suffragette incarcerate negli anni ’10-’20 quanto le militanti repubblicane Dolours e Marion Price nei primi anni ’70 del secolo scorso ed erano esposti anche gli strumenti (di tortura!) utilizzati per questa violenta pratica coercitiva, poi dichiarata non-etica dall’Associazione medica mondiale nel 1975.

A cinquant’anni di distanza da quella dichiarazione non solo le cose non sono cambiate ma, come due anni di pandelirio hanno ampiamente dimostrato, il monopolio statale della violenza va a braccetto con la sovradeterminazione, da parte istituzionale, delle scelte individuali di vita e di morte così come di quelle relative alla salute e alla cura.
La riduzione capitalistica degli esseri umani a merci, la definitiva reificazione-alienazione dell’individuo nelle mani dello Stato e del Kapitale passa anche – e prima di tutto – attraverso la negazione e la criminalizzazione di ogni forma di autodeterminazione.

Per questo le lotte contro il carcere e contro tutte le istituzioni totali e le loro propaggini nelle istituzioni ordinarie sono lotte femministe, oltre che libertarie e anticapitaliste, come già le nostre compagne ci hanno dimostrato un secolo fa.

(clicca sull’immagine per ingrandirla)

Il silenzio del femminismo mainstream su carcere e istituzioni totali e la ricorrente richiesta di leggi contro la violenza maschile sulle donne, oltre a dimostrare un’ignoranza storica abissale sono i chiari segnali di una volontà collaborazionista con chi si arroga il monopolio della vita, della morte e dell’agonia altrui.

(*) Nicola Valentino, Le istituzioni dell’agonia. Ergastolo e pena di morte, Sensibili alle foglie 2017

Al fianco di Lina Pinto

Lina, anziana donna proletaria cagionevole di salute, da ottobre è rinchiusa nelle carceri pugliesi. Intorno alla sua vicenda il silenzio è assordante, malgrado sia lo specchio di questa società disciplinare.

Rete Mapuche ha reso pubblica la sua storia e sta sostenendo la mobilitazione – che rilancio – per la sua liberazione.

Questo il comunicato dello scorso dicembre sulla sua incarcerazione:
Siamo amici ed amiche di Lina, una donna di 76 anni, rinchiusa da quasi due mesi in carcere (prima a Trani e da due settimane a Lecce). All’inizio ci abbiamo messo un po’ per affrontare collettivamente ed insieme al figlio, incredulità, rabbia e dolore nel pensarla rinchiusa, alla sua età e con i sui acciacchi, nel Carcere, lontana dalla sua casa, dai suoi affetti e dalle sue abitudini di donna libera e determinata nel vivere la vita in maniera semplice e genuina. Lina è una proletaria che vive insieme al figlio in uno dei tanti palazzi del quartiere Libertà di Bari.
Spesso a Bari le discussioni sono animate e non si sa mai come possono andare a finire; a causa di una di queste discussioni Lina finisce ai domiciliari a seguito di un provvedimento dell’autorità giudiziaria causato da una presunta lite condominiale e dopo alcuni giorni viene portata nel carcere di Trani in quanto considerata “evasa” dai domiciliari che le avevano imposto. L’avvocato non viene avvisato ed il figlio scopre che la madre è stata portata via dai carabinieri dagli abitanti del quartiere.
Lina è stata portata nella discarica sociale del paese Italia; è stata rinchiusa nel carcere femminile di Lecce perché lo stato, i servizi sociali, il welfare, la cura e il sostegno che tutti gli anziani di questo paese dovrebbero avere è loro negato, soprattutto se si è poveri, se si vive in un quartiere proletario e se non si dispone del denaro per poter affrontare al meglio i guai della vita.
Lina è una donna anziana, con diverse patologie e con i segni di un’intera vita passata ad affrontare problemi e difficoltà e la detenzione sta aggravando le sue condizioni fisiche e psicoligiche così come confermato dall’avvocato che l’ha vista ieri (lunedì 5 dicembre) durante la prima udienza del processo a suo carico.
Quello che sappiamo e che vogliamo è che Lina sia liberata immediatamente e sia individuata una soluzione alternativa alla detenzione in carcere perché è indegno per un paese che si considera moderno e democratico che una donna della sua età e con i sui problemi sia costretta a vivere ancora un minuto in più tra le mura di un carcere.
Le amiche e gli amici di Lina

E questa la chiamata alla mobilitazione per il prossimo 16 gennaio:
16 GENNAIO: MOBILITAZIONE PER LA LIBERTÀ DI LINA PINTO (DALLA PUGLIA AL CILE, TUTTE E TUTTI FUORI DALLE GALERE!)
Da metà ottobre ANGELA PINTO (Lina) è stata buttata in carcere senza tener conto dell’età avanzata (76 anni) e delle svariate patologie, in parte legate anche all’età, di cui soffre. Da quel momento su di lei è calato l’oblio del sistema giudiziario e carcerario che contraddistingue l’infamia del nostro bel paese. L’1 gennaio è stata ricoverata per un malore. Il tempo passa e le sue condizioni psicofisiche si aggravano, come spesso succede a chi è privato di libertà. Perché il carcere è questo: annichilimento dell’essere umano. Tutte le pressioni fatte alle istituzioni cittadine, per far attivare la macchina del welfare, si sono trasformate in promesse disattese. A nessuno, importa di Lina. Nessun impiegato dello stato sembra voler guardare negli occhi Lina e ascoltare la sua storia. Come il giudice, automa senza scrupoli né umanità che continua a rigettare ogni istanza di scarcerazione o di attenuazione delle misure cautelari, perché Lina è reclusa nel carcere di Lecce senza nemmeno essere stata condannata. Di fatto hanno deciso di ammazzarla in carcere, in Italia se sei povero muori in carcere. Lo stato di diritto di cui tanto ci vantiamo col resto del mondo è illusorio, la democrazia che siamo bravissimi a esportare con le bombe non è diversa da quella di alcuni paesi ritenuti regimi dittatoriali dall’opinione pubblica. La stessa persecuzione vissuta dai Mapuche, dai Curdi, dai Palestinesi e da tanti altri popoli oppressi oggi si è concretizzata amaramente anche in Italia. E lo vediamo ad oggi anche nella prigionia politica di Alfredo Cospito, rinchiuso e in sciopero della fame al 41bis. Come Rete internazionalista e anticarceraria chiamiamo alla mobilitazione internazionale in solidarietà con Lina: il giorno 16 gennaio 2023 dalle 8.30 saremo presenti fuori dal tribunale penale di Bari in Viale Saverio Dioguardi 1, dove si svolgerà l’udienza e dove faremo sentire forte il nostro grido ribelle. Chiediamo a movimenti, collettivi, associazioni e chiunque percepisca il dolore di questa ingiustizia di essere per strada o fuori alle sedi che rappresentano la malvagità dello stato italiano ognuno con le proprie pratiche di dissenso.
Solo la lotta paga. La solidarietà è un’arma, la solidarietà è una prassi, usiamola! Fuori tutte e tutti dalle galere, libertà per Lina!

Ma guarda: l’Italia si risveglia fascista….

… e c’è pure chi si sorprende! Come se due anni di gestione autoritaria del pandelirio, militarizzazione del quotidiano, controllo sociale e coercizioni fossero ormai ricordi di una vita precedente.

E invece no: pensiamo a quanto l’italiota medio è stato felice di collaborare a questa gestione autoritaria, facendo il delatore o prestandosi al controllo dei green pass – e che gusto nel cacciar via dal posto di lavoro o dalla pizzeria i renitenti!

Pensiamo anche al giubilo popolar-istituzionale bipartisan nell’addestrare ed armare manipoli di neonazisti ucraini definendoli ‘partigiani’.

Care italiote e cari italioti, ora imbellettatevi a dovere per accorrere ad ingollare, come direbbe C. E. Gadda, questo «cucchiarone di pus cremoso di che s’è inzaccherata l’Italia» anche e soprattutto grazie a voi.

Adunata a piazza Venezia, 1941 (Archivio LUCE)

Mobilitazione psicologica

Adolfo Mignemi, nel capitolo “Libro e moschetto” del suo fondamentale Immagine coordinata per un impero. Etiopia 1935-1936 (gruppo editoriale Forma,1983), dedica alcune pagine al ruolo che ebbe il corpo insegnante nella propaganda imperialista.
Non sto a sintetizzare quelle pagine, ma le riporto qui scansionate, invitandovi a leggerle non solo per meditare sull’attualità di alcuni passaggi – la Giornata del Risparmio, istituita dal regime di Mussolini, ha ben poco da invidiare agli ‘inviti’ governativi a ridurre i consumi che si moltiplicano in questi giorni, tanto per fare un esempio… – ma soprattutto per riflettere sulla persistenza dei dispositivi della mobilitazione psicologica in ambito culturale ed educativo.

Tale mobilitazione psicologica, per altro, non è che una delle lame di coltello insanguinate del post precedente.

Lo abbiamo visto in questi anni di pandelirio – su cui sarei anche stufa di soffermarmi: ormai chi ha voluto capire ha capito e a chi non ha voluto capire rimane solo Speranza – e non la speranza!

Lo rivediamo in questa guerra per procura della Nato.

Ricorderete bene, immagino, l’affaire Dostoevskij sollevato dall’università di Milano-Bicocca nel marzo scorso. Ma siccome non c’è limite al peggio, è di oggi questa notizia, riportata da Laura Ru con tanto di foto nel suo canale Telegram:

GERMANIA – Uno strano annuncio è apparso in una biblioteca pubblica di Dresda. Si incoraggiano i lettori a consegnare libri di autori russi da utilizzare per riscaldare l’edificio durante la stagione fredda.
«Affrontare l’aggressione russa è un impegno collettivo. La letteratura russa non ha posto nella tua libreria. A causa della prevista riduzione del riscaldamento in autunno e in inverno, ti chiediamo di donare libri di autori russi da utilizzare per il riscaldamento della biblioteca. In questo modo, sarai in grado di leggere buoni libri anche se Putin interrompe la fornitura del gas».
L’annuncio lo ha firmato il capo della biblioteca-Katrin Stump, il cui profilo su Twitter https://twitter.com/katrin_stump e’ accompagnato dalle bandierine di UE e Ucraina, il che significa che la direttrice della biblioteca principale della Sassonia è schierata politicamente in modo esplicito.
Qualcuno dovrebbe ricordarle che erano i nazisti a bruciare i libri in Germania. @LauraRuHK

Ora capite da quali profonde cloache traggano ispirazione costoro, ai/alle quali non vale nemmeno la pena di domandare che c’entrino con Putin i capolavori della letteratura mondiale.
E mi chiedo quante e quali altre ancor più profonde cloache siano disposti/e a dragare per continuare a supportare questa immonda mobilitazione psicologica.

Aggiornamento del 5 settembre: pare che la direttora della biblioteca di Dresda abbia smentito la notizia. Buon per lei, ma nulla toglie al senso complessivo di questo mio post.

Esempio di piccola ma importante resistenza di una piccola ma resistente biblioteca